Briciole, storia di un’anoressia
Il termine “anoressia” significa “assenza di fame”, nella concretezza però non è una malattia che riguarda l’appetito in sé, anzi, è una sensazione avvertita ma reputata un pericolo.
Questa è la vicenda di Alessandra Arachi, scrittrice e giornalista de “Il Corriere della Sera”.
Centotre pagine datate 1994 per raccontare un dramma che ad oggi, nel 2019, risulta ancora incomprensibile a chi osserva da fuori.
Quella di Alessandra è una storia comune a molte ragazze e donne: decidere di lasciarsi morire di fame perché il cibo diventa nemico, un’ossessione che divora la psiche.
Nella maggior parte dei casi, il disturbo prende via nel corso dell’adolescenza seppur riscontrata anche in adulti e bambini, senza escludere il sesso maschile.
Stime ufficiali ne riportano il manifestarsi intorno all’età di otto anni
L’anoressia rende schematiche, maniache del perfezionismo, abili e ciniche calcolatrici di calorie ingurgitate, selettive in merito al cibo ammesso e non, folli maratonete dedite a una sfrenata attività fisica. Caratteristica è la gestione e il controllo di ogni circostanza: nei fatti è solo un’illusione, una prigione, un buco che risucchia.
È onnipotenza, che si manifesta in primis verso se stessi, poi nei confronti di soggetti esterni e che, ovviamente , rappresenta uno stato distruttivo. Ci si sente forti a seguito della capacità nel sopportare la feroce fame che assedia.
Richiede quindi un immenso sforzo mentale.
Si perde l’anima sopra una bilancia la quale, giorno dopo giorno, diviene compagna di vita, fino a rendere schiave.
Tutto parte da una visione distorta del corpo: “Una bambina vivace, un’adolescente allegra e sportiva. È a metà della crescita che ho voluto rovinare una vita bella, dunque tranquilla, dunque noiosa. Così la vedeva un cervello che era troppo cupo, senza motivi, per occhi troppo accesi. Occhi marroni, naso sottile. Gambe lunghe ma non magre. Non a sufficienza per me che soltanto scheletrica che avrei potuto avere il mondo ai miei piedi. E a pensarci ora non mi sarebbe bastato”.
Dietro a siffatta concezione falsata , si celano invece altri meccanismi, irrazionali, ma solo all’apparenza.
Attraverso il vomito, attraverso la restrizione alimentare, si manifesta un disagio, si rifiuta un qualcosa che non è il cibo e allo stesso tempo si cerca altro.
“ Spalancai la bocca e mi piegai giù, verso l’acqua ferma del water. Con violenza spinsi l’indice e il medio oltre i denti, lungo la gola. Sentii una botta alla bocca dello stomaco, gli occhi bagnati, negli occhi le immagini di diciassette anni di vita che mi ordinavano di tirar fuori dallo stomaco le polpette. Ributtai giù le dita. Un altro colpo, un attacco di tosse. Avevo lasciato aperta la porta del bagno, con la speranza che qualcuno accorresse a consolarmi. Silenzio.
Attaccai la bocca al rubinetto del lavandino per riempire lo stomaco d’acqua. Smisi di bere soltanto quando sentii l’acqua alle soglie della trachea. Di nuovo infilai l’indice e il medio, con rabbia. E questa volta le mie dita tirarono fuori un liquido rosso: il sugo veniva giù insieme all’acqua. Per vomitare la carne ci vollero una decina di contrazioni dello stomaco, forti, secche”.
Dunque, cosce o polpacci “importanti “possono delinearne una valida spiegazione? Essere felici solo quando l’ago della bilancia cade a picco, precipitando di molto al di sotto del peso ideale, e continuare a perderlo, senza minimamente sapere a che punto si vuole giungere, vedere etti svanire insieme alla vita stessa. Ridursi all’assenza di ciclo mestruale(amenorrea), il che, è sinonimo di respingere il proprio essere donna.
Passeggiare al sole e sentire freddo, percepire la distruzione del corpo.
Lo scopo di chi soffre di questo male è rendersi invisibile, smarrirsi dentro le proprie vesti, cercare una via di fuga dalla realtà, a tutti quei “troppo” che circondano: capita di crescere presto, fin “troppo” presto, vedere e recepire l’esistere e le sue sfumature prima di altri; di conseguenza, la leggerezza di vita ricercata viene riflessa sul peso corporeo, perché se non si rispetta quel “troppo” si è pari a niente.
Nel caso di Alessandra, breve è il passaggio da anoressia a bulimia.
“Bulimia”, “fame da bue”. Si ingurgitano quantità industriali di alimenti di qualunque tipo, a qualsiasi ora del giorno e della notte, salvo poi svuotarsi.
Si espelle ciò di cui ci si riempie non solo tramite il vomito provocato, ma anche per mezzo di lassativi e diuretici.
Dietro l’espressione “cibo in eccesso” si nasconde uno strumento per
colmare un vuoto affettivo.
Secondo gli psichiatri, chi soffre di bulimia mangia anche senza appetito, fino a scoppiare, fino a che, non vi è più spazio nello stomaco.
Alessandra subisce un ricovero: “Programma di modificazione comportamentale non significa che qualcuno di viene vicino e cerca di farti cambiare atteggiamento nei confronti della vita. Questa terapia in clinica viene stabilita a tavolino. I medici prendono te, anoressica, ti scrutano, ti visitano, ti pesano. Poi decidono di quanti etti devi ingrassare ogni giorno per guarire. A quel punto o mangi o a farti mangiare ci pensa una sonda gastrica: tre pasti al giorno buttati direttamente nello stomaco da un tubino”.
Tecnicamente parliamo di “alimentazione forzata” che, certo, salva un corpo in frantumi, incapace di reggersi in piedi, senza comunque arrivare all’origine del male, inutile per veicolare a un differente approccio alla vita, ma necessario in casi gravi.
La presunzione è quella di guarire un sintomo senza affrontarne le basi, ecco, cosa rappresenta quel tubo in gola. Riattivare un corpo con la forza non basta, riprendere peso non significa essere guarite; la natura del problema è psicologica, gli interventi devono conseguentemente essere molteplici e interagire tra loro: psicoterapia individuale, colloqui periodici a sostegno dei genitori, supporto medico – nutrizionista.
Alessandra difronte a quel tubicino si sente impotente, allora scatta la bugia del “faccio la brava” così lo strazio termina prima. In clinica si è controllati notte e giorno: rigurgitare è impossibile.
Liberatasi dal ricovero, Alessandra scivola in un’altra trappola: decide di sposarsi per fuggire, ancora.
La situazione peggiora, mai aveva pensato di amare il marito. “Non lo odiavo. Lo avevo sposato per liberarmi dalla vecchia vita ormai opprimente”.
Con il tempo, si ritrova a passare le notti su un divano, a non sopportare più il marito e le sue attenzioni giornaliere, dividere il letto con lui diviene impossibile; la scrittrice piange e fuma.
Avvia quindi un nuovo processo autodistruttivo, giunge a cibarsi di “niente” e a rigettare anche succhi gastrici quando non ha null’altro nello stomaco. Da questo momento anche il partner inizia a preoccuparsi, in modo non difforme da quello dei genitori: il limite di tolleranza nei confronti dell’uomo viene superato.
Anoressia e bulimia sono disturbi strettamente legati alla sfera affettiva.
La restrizione alimentare è un tentativo di annientare ciò che di doloroso si sente dentro, materializzandolo attraverso la perdita di peso.. Ci si difende da paure, vuoto, abbandono. E se abbasso le barriere difensive? Se mi apro alla vita, cosa potrà mai accadere?
La bestia è una fottutissima e disperata ricerca d’amore, un lento suicido, un violentarsi.
Come dire: “Cazzo, io sono qui! Guardami, ascoltami…amami, non ne posso più!”.
Riuscita a ricalibrarsi, Alessandra scrive: “ Briciole: un’anoressica non concede più di tanto al suo corpo. Briciole: un’anoressica non concede più di tanto spazio al mondo esterno. Ma succede che anche una briciola di emozione può ribaltare la vita”.
“Anoressiche” e “Bulimiche”, perché così vengono classificate, non si diventa.
Non ci si alza una mattina e per capriccio o per passare il tempo si decide di massacrare il corpo.
Ci troviamo difronte a un percorso, a un tormento che si cova dentro da anni, fino a che, quest’ultimo, non tocca la punta dell’iceberg: una bomba ad orologeria che semplicemente esplode.
Quindi, non esistono ETICHETTE ma PERSONE che, in qualche modo, urlano.
Amore, affetto e calore sono la migliore cura.
Occorre imparare ad amarsi, porre limiti e paletti: ogni tanto, dire no.
Il primo passo verso la guarigione è chiedere aiuto, ammettere di non essere in grado di farcela da sole, ma soprattutto, trovare il coraggio di dare un nome alla sofferenza.
Ulteriore progresso è rappresentato dal conflitto interiore che, inaspettatamente, si scatena: da un lato il terrore per il cibo, il rifiuto di prendere anche un solo un grammo, dall’altro la voglia di riprendersi la propria fisicità e le proprie emozioni.
Siffatti ultimi due elementi piano, piano diventano sempre più forti, prendono il sopravvento, il che, equivale a percepire un tenue desiderio, paragonabile allo sguardo innocente di una bambina che per la prima volta si affaccia al mondo.
Guarigione significa tornare al punto in cui è avvenuta la rottura, riportarsi a un equilibrio tale da rendersi funzionali. Le ferite si cicatrizzano, ma torneranno sempre a sanguinare, l’abilità consiste nel riconoscerne i segni e bloccare “processi devastanti” sul nascere.
A titolo informativo riporto qui le conseguenze psicofisiche di un disturbo alimentare quale l’anoressia: svenimenti, mal di testa, alterazione dello stato umorale, ansia, depressione, crescita di peli lungo il corpo, pelle e labbra secche, unghia fragili, capelli sottili tendenti a cadere; pressione bassa, battito cardiaco irregolare, anemia e perdita di calcio, stanchezza, perdita muscolare, perdita di libido, ciclo mestruale irregolare o assente, disidratazione, insufficienza renale. A livello intestinale sono riscontrabili: dissenteria, gonfiore e dolori addominali.