Sai perché non mangio, mamma?
Mamma, aiutami, quanti muri di Berlino crollano per sempre dentro di noi?
E quanti scarti rimangono di quanto crediamo di fare nostro?
E quanta energia si libera dalle fissioni nucleari dei nostri cuori?
Complesso, conflittuale e difficilmente gestibile è il rapporto che lega una madre a una figlia; la lotta che ne scaturisce può dare origine a relazioni disturbate tra le parti.
Il processo di identificazione nei confronti del genitore dello stesso sesso genera difficoltà nel plasmare una sana, equilibrata e indipendente identità.
L’incomunicabilità affettiva coincide con la radice di disturbi alimentari.
“Vuota per sempre, appunti dall’anoressia” della giornalista radiofonica e autrice Laura De Luca affronta la duplice problematica disturbi alimentari / relazione madre figlia.
Quando il vuoto tra le due è all’apparenza insormontabile, subentra la scrittura, lo scambio epistolare, il cui fine è colmare la voragine creatasi.
“ Cara Mamma, voglio provare, finalmente. Oggi mi sento in forze perché ho mandato giù una castagna, e non l’ho ancora vomitata. Mi domandi e ti domandi perché sono così, te lo domandi riempiendo di pugni la parete, andando a sbattere contro il muro della mia faccia che da anni non invecchia e non si sgretola, ma oggi voglio provare a scriverti, mamma. Perché non mangi maledizione? Perché sei così? Ma io come faccio a risponderti davvero? Prima dovrei rispondere a me stessa, dentro mi gira una domanda ancora più antica: perché sono?”
Due donne, due generazioni differenti si confrontano: da un lato una figlia che cerca di spiegare le ragioni della sua anoressia , dall’altra una madre “incapace” a comprenderne i motivi.
Un duplice viaggio introspettivo le cui impronte vibrano su fogli bianchi.
Anoressia come rifiuto di quella femminilità materna fatta di utero e mammelle, indici di nutrimento, quel nutrimento tanto odiato.
Sono donne, simili e dissimili allo stesso tempo.
Entrambe, se pur in modo difforme incarnano il seme della ribellione. Una madre rivoluzionaria e femminista, la quale, ad un certo punto, tramite il disturbo alimentare che colpisce la figlia, si trova costretta ad un’analisi approfondita di sé medesima, con le sue mancanze di madre, moglie e il suo “appartenersi”.
I figli sono lo specchio dei genitori, capaci di manifestare le privazioni arrecate da figure genitoriali, mettendoli in qualunque momento, inaspettatamente e inevitabilmente difronte al loro fallimento umano, personale.
Nei figli è insito il riflesso di ciò che avrebbero voluto essere coloro che donano la vita, con la presa di coscienza dell’insopportabile valore aggiunto di cui è portatore il generato.
Femminismo, in parte l’origine del dramma, l’origine dello scontro tra le due.
Questo “movimento” volto all’emancipazione, forgia il carattere della donna allontanandola dal suo ruolo naturale, ma anche a un diniego della maternità, al rifiuto di una figlia femmina; sconfessarla in funzione della possibilità di una similitudine con ella, se non addirittura, superare lo scoglio della similitudine, per raggiungere il “ di più”: un individuo unico, simile al vento, pronto a scattare con quella forza e determinazione mancante alla prima.
Competizione, ecco tutto.
Madre e figlia scisse al nono mese, due metà destinate apparentemente a non ricomporsi.
Potere e controllo (attributi di chi si soffre di problemi legati alla sfera alimentare), sono indossati dalla genitrice, che li esercita attraverso la procreazione.
La femmina stabilisce la sua autorità sull’uomo attraverso il figlio maschio: io ti creo, quindi sono più forte di te.
Insomma, un’ entità autonoma: arida, pronta a respingere abbracci, tenerezze e attenzioni maschili.
Vi è una forza oscura che la spinge lontano, oltre.
Talmente fiera di sé da indurre una figlia a vedere la propria madre perfetta, e a emularla in quelle battaglie, che alla fine, si rivelano utopia.
“ Io avrei voluto essere come te, perfetta nell’ostinazione delle tue smanie, nelle tue battaglie ormai annacquate, buone solo ad alimentare i sogni. Ti avrei seguito volentieri nei tuo viaggi, ma tu aprivi la porta e continuavi a dirmi ciao”.
La chiave dell’anoressia che da ben sette anni colpisce una ventiduenne va dunque cercata in questo legame : il disturbo alimentare si traduce in punizione e ribellione verso la stessa, ma non solo.
Il terzo elemento risulta in antitesi con i primi.
Uno scheletro che cammina, trentotto chili, un cadavere, una porta chiusa alla spalle, due dita in gola e l’ennesimo svuotarsi; una carcassa disperatamente ancorata alle proprie ossa, allo scopo di manifestare un disagio.
Vomito, rifiuto, sensazione di essere rifiutata.
Concetto semplice da comprendere: qualcuno, reputato parte integrante della propria vita, ad un certo punto esordisce con un “Vattene”.
Dove andare? Fuori da se stessa, dal proprio corpo, come una farfalla, la
quale altro non è che l’immagine dell’anima che si distacca dal corpo.
Il rifiuto del cibo è dunque legato all’abbandono, al senso di vuoto incarnato nella figura materna.
Nella testa di questa ragazza ruota un paragone: il cibo ingurgitato è destinato a svanire, allontanarsi, così come la madre e le sue continue fughe.
Questo mette ulteriormente in luce la dipendenza dalla figura materna, odiata, ma che sottolinea un bisogno d’amore manifestato attraverso la ricerca d’approvazione da parte di quest’ultima, una richiesta di essere guardata negli occhi, di parole e fiducia. Una preghiera accompagna tutto ciò: essere accettata, come figlia, mutevole nel suo essere, imponderabile secondo i suoi dettami e non quelli impostigli.
Il riconoscimento di un forte sentimento è la chiave di lettura per giungere a sfiorarsi : “ Ti amo mamma. Amo le tue rivoluzioni fallite, amo quei tuoi libri con le pagine intrise di spinello, amo quel tuo vecchio camice color del sangue che ti abbiamo messo addosso, come ci ripetevi sempre, quando ti fosse scoccata l’ora. Finisco per amare perfino la tua morte, mamma, perché ora finalmente, ho il coraggio di dirlo”. L’anoressia è una dinamica, uno strumento di controllo, un ricatto. Non si tratta di colpevolizzare, perché quando la posta in gioco è alta, il tempo va impiegato saggiamente, occorrono consapevolezza e volontà nel mettersi in discussione, e non solo da parte di chi la vive in prima persona, sulla propria pelle. Fondamentale è il contributo di affetti familiari, che scrutano con sguardo esterno, increduli, tendenti a negare il problema.
Sono inoltre necessari interventi mirati interagenti tra loro: psicoterapia individuale, colloqui periodici a sostegno dei genitori, supporto medico – nutrizionista.
L’accettazione è la via per ricucire lo strappo.
Estrema leggerezza corporea, capelli che giorno dopo giorno cadono a ciocche, amenorrea, perdita di libido, alterazione dello stato umorale, depressione, anemia, astenia, svenimenti, perdita del tono muscolare, compromissione delle facoltà cognitive raccontano una storia, da leggere per comprenderne i meccanismi.
Sono tante, troppe: bambine, adolescenti e donne. Ognuna con il proprio dolore e la propria ribellione che conducono a lasciarsi morire di fame, una fame sentita ma ritenuta un pericolo. Tutte alla ricerca di un fattore scatenante, del punto in cui è avvenuta la rottura e ritrovare in tal modo l’integrità psicofisica.