Donne contro la mafia
Cinquantasette giorni.
Capaci, 23 maggio 1992. Ore 17.58
Autostrada Punta Raisi-Palermo, una carica telecomandata con seicento chili di tritolo, esplose.
Quest’ultima venne completamente sventrata. Persero la vita il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, magistrato.
Tre agenti di scorta viaggianti sulla prima croma blindata, vennero
massacrati: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo.
Salvo per miracolo l’autista del magistrato, che in quell’occasione non guidò l’auto.
Feriti ma illesi i tre agenti della terza croma.
Via D’Amelio, 19 luglio 1992. Ore 16.57
Via D’Amelio, Palermo, esplode un’autobomba, sempre telecomandata con cinquanta chili di plastica.
Teatro di guerra in cui persero la vita Il giudice Paolo Borsellino, e cinque agenti della scorta dilaniati: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, prima donna poliziotto a cadere sotto mano mafiosa.
Salvo un solo agente.
In questi giorni di terrore e stragismo, Rosaria Costa, giovane vedova
ventiduenne di Vito Schifani, lanciò il suo guanto di sfida, lo fece attraverso la scrittura, perché la scrittura rimane viva, nel passato, presente e futuro.
Le commoventi parole della donna, suonano di dolore, rabbia e amore; il ricordo di chi diede la vita scivola via, accompagnato dalla voglia di
giustizia e riscatto per l’esistenza terrena.
Il pensiero di Rosaria divenne emblema di una rivoluzione etica.
A seguire l’intera lettera che Rosaria rivolse a quel sistema marcio e malato denominato mafia.
“Avete perduto, uomini senza onore. State perdendo pure i vostri figli che guardano le vostre mani sporche di sangue. Il disprezzo vi sommergerà. Forse siete in tempo per non farvi odiare dai vostri figli stessi. Io vi perdono ma inginocchiatevi.
Dico a voi, mafiosi, convinti di essere padroni della vita e della morte senza capire che siete solo cadaveri in cammino verso l’inferno, colpevoli davanti a Dio e colpevoli davanti agli uomini per avere distrutto le vostre stesse esistenze, per avere trasformato in campo di guerra la terra dei vostri figli spargendo odio, come quello esploso il 23 maggio del 1992 nella strage dell’autostrada dove, per uccidere Giovanni Falcone, avete commesso l’errore più grande, perché tappando cinque bocche, ne avete aperte cinquanta milioni, come hanno scritto i bambini, i compagni di scuola dei vostri figli.
Ma voi non cambiate…E non vi siete fermati, strappandoci anche la speranza che eravamo riusciti a costruire in cinquantasette giorni di dolore e di impegno civile.
La bomba di via D’Amelio, il terremoto del 19 luglio, ha fatto tremare le fondamenta della nostra coscienza costringendoci a pensare che per come voi non possa esserci remissione di peccati. E nemmeno perdono.
Ma se noi ci convincessimo che non possiamo più perdonare allora vi daremmo partita vinta, per ammettere che l’alternativa alla barbarie è altra barbarie, come qualcuno nella disperazione ha pensato, perché di tanti di voi si conosce tutto e la vendetta sommaria potrebbe bilanciare le stragi sommarie.
È questo lo scenario che mi atterrisce e che deve obbligare noi, assetati di giustizia, a cercare solo giustizia e non altro.
Non vi siete piegati alla nostra invocazione, Tanti di voi non si sono pentiti ma la vostra cieca violenza si è scatenata di nuovo proprio perché con le nostre preghiere e i nostri moniti abbiamo fatto breccia in alcuni di voi, a cominciare da chi ha scelto dopo Falcone e prima di Borsellino d’incamminarsi sulla via del pentimento.
Dico a voi, politici dalla faccia sporca. Siete voi lo Stato? VI mangiate pezzi di strade, di ospedali, di metropolitane, di porti, ingrassate ed affamate un Paese che affonda nei debiti mentre qui a Palermo i bambini giocano sporchi in mezzo alle macerie della seconda guerra mondiale, fra le quinte spettrali della vecchia Palermo con i palazzi bombardati che crollano proprio dove sono nati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli uomini che non avete saputo o non avete voluto proteggere.
Dico a voi, donne della mafia, madri snaturate che vendete a Satana le coscienze dei vostri figli in cambio di effimere comodità, di macchine veloci, di una cucina nuova, di vestiti e gioielli. Ma non vi resterà niente dentro. Così, morite anche voi. Ogni giorno di più.
Aiutate piuttosto i vostri uomini a salvarsi, a chiedere perdono, ad inginocchiarsi su questa terra umiliata da pochi malvagi che oscurano la grandezza di scrittori, artisti, religiosi, brava gente, tutti siciliani costretti a misurarsi con questa parola troppo usata, la mafia.
Che vuol dire mafia? E mafiosi? Perché non chiamarli soltanto criminali o assassini? Ho paura che quasi quasi si sentano importanti leggendo i titoli dei giornali. Fa un gran danno questo parlare della mafia come se fosse una specie di esercito o, come sento dire, di Antistato. Chi ci sta dentro magari finisce per sentirsi un soldato, un soldato che combatte per una causa. Giusta o non giusta, a loro poco importa. Io non vorrei mai più sentire parlare di “killer” di “professionisti del delitto”, di “tecnica militare” perché sembra di imbellettare, di glorificare assassini sporchi di sangue, boia e macellai che considerano la vita umana come uno straccio.
Sono assassini. Diciamolo forte ai loro figli perché possano guardarli negli occhi e scoprire come sono fatti gli occhi degli assassini. Io me li immagino tutti seduti a tavola nelle loro case, né ricche né sfarzose perché su tutto impera l’atmosfera cupa di chi, comunque, non ha certezza e trema d’angoscia.
Ma da sola non posso. Non ricordo, non so, non capisco. Ho bisogno di aiuto e per trovare la verità mi metto in viaggio per questa città alla ricerca di chi ne conosce anche solo un pezzo. Vorrei poter mettere insieme tanti pezzi di verità e scoprire tutto. Proverò a capire, recuperando il tempo perduto.
Esco dal mio quartiere l’Uditore, da quello di Vito, la Noce, e vago per gli angoli maledetti di un cimitero chiamato Palermo dove crescono le lapidi, le chiazze rosse, i ceppi a memoria dei caduti di una guerra che non finisce e che i miei ricordi fanno cominciare nel 1980 quando io avevo 10 anni e in televisione si vedevano sempre cadaveri.
Ho bisogno di parlare con le vedove e con gli orfani di questa guerra. Cammino per Palermo nei pomeriggi infuocati dei cinquantasette giorni che separano una strage dall’altra e mi trovo ad ogni angolo con lapidi e croci incollate ai muri, a memoria della nostra tragedia.
Nel raggio di cinquecento metri, il cuore di questa città luttuosa sembra davvero un cimitero. Lascio la casa della signora Terranova, la vedova del giudice ucciso nel ’79 con il maresciallo Mancuso, e vedo la prima lapide all’angolo di Via De Amicis. Attraverso un passaggio stretto, mi trovo in via libertà e, subito dopo la residenza del prefetto, ecco la lapide in ricordo di Piersanti Mattarella, il presidente della regione ucciso nel 1980. È un cippo di conci di tufo piazzato difronte a via Pipitone Federico, altra strada scolpita fra i drammi di Palermo come scopro camminando per atri duecento metri. Lì, l numero 59, fra un panificio ed un elettrauto, hanno fatto scoppiare nel 1983 l’autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici, il portiere dell’edificio e due carabinieri si scorta. Sulla lapide leggo i loro nomi.
Prego e proseguo sempre con altre soste sempre più ravvicinate perché qui, a due passi, in via Petrarca vedo la chiazza rossa disegnata sul marciapiede con lo spray da chi non vuol dimenticare Libero Grassi, l’imprenditore coraggioso ucciso sulla stessa strada di un coraggiosissimo impiegato regionale Giovanni Bonsignore, altra vittima innocente caduta a quaranta metri dal bar di via Di Biasi, dove nel ’79 un assassino solitario sparò contro Boris Giuliano.
Ho lasciato casa Terranova dieci minuti prima e ho visto le iscrizioni di dieci martiri. Sono stanca, mi rifugio a casa della vedova Bonsignore, in via Cuccia. Il marito glielo hanno ucciso all’angolo ma il segno di un altro delitto c’è anche di fronte alla portineria dove è stato assassinato un medico, il dottor Bosio, colpevole di curare un mafioso braccato dai suoi nemici.
Qui non muoiono solo i servitori dello Stato, ma anche impiegati, imprenditori, medici. Questo è il Duemila che stiamo preparando ai nostri figli. È così che stiamo costruendo il tradimento di fine millennio.
Morti importanti, cadaveri eccellenti, soldati semplici hanno puntellato la mia infanzia come quella di tre, quattro generazioni di palermitani con migliaia e migliaia di ragazzi cresciuti faccia a faccia con la violenza, a volte metabolizzandola, dirigendola, abituandosi, come è capitato a tanti di noi, come non deve succedere più.
La memoria a fatica mi riporta allo stillicidio quotidiano cominciato con gli omicidi di giudici e uomini politici. Le storie che mi ripropongono richiamano figure simili a Boris Giukiano, del giudice Terranova, del presidente Mattarella, del procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario del partito comunista Pio La Torre e così via, dal 1980 al 1982, fino al massacro di Carlo Dalla Chiesa, il generale famoso perché combatteva contro le brigate rosse e poi ucciso a Palermo dove l’avevano mandato come prefetto, come generale antimafia .Mi restano fissi in mente in mente le immagini della A 112 tutta a buchi e il profilo di Emanuela, la moglie giovanissima, una bellezza sfregiata dai kalashnikov. Avevo dodici anni quando li ammazzarono. Ricordo quella piccola macchina bianca. Restammo tutti impietriti alla TV. Mio padre era ancora vivo e disprezzava i mafiosi: “ Come fanno ad ammazzare la gente per soldi!” diceva. Tutto per i soldi, per gli affari, per i malaffari.. Senza fermarsi davanti a donne e bambini perché questa mafia che si vuole mangiare lo Stato è solo una bestia feroce.
Penso a Francesca Morvillo, Emanuela Setti Carraro ad Emanuela Loi e mi chiedo perché Dio abbia risparmiato me, lasciando volare via da sollo il mio Vito come un angelo in questo sacrificio d’amore consumato nel lato e nel boato di un istante .Resto qui e mi sento in viaggio per lui, per il mio bambino al quale devo spiegare perché suo padre l’aveva lasciato quando aveva solo quattro mesi. Non ho più lacrime di giorno. Scivolano solo nella mente .E al risveglio trovo solo parole da pronunciare contro di voi o per voi mafiosi che eravate certamente anche in chiesa a godere lo spettacolo del nostro dolore.
Un magistrato mi ha raccontato di un suo incontro con un pentito che, dopo avere ucciso un uomo, si è confuso in mezzo alla folla ..al funerale della sua vittima, avvicinandosi alla sua bara, accarezzandola fingendo dolore, facendo perfino le condoglianze alla vedova.
Ecco, io temo di incontrare gli assassini di Vito e di non riconoscerli. Sono certa che erano a San Domenico. E che avranno riso come i loro amici hanno brindato nelle celle dell’ Ucciardone.
Cambierete? Cambieranno? Mentre parliamo dei nostri cari, mentre li piangiamo, loro i signori della morte, si preparano nuovi lutti, scelgono il prossimo bersaglio. Lo seguono a distanza, ne controllano i movimenti, cercano il punto debole della tutela, dei percorsi, scelgono fra kalashnikov, autobomba carica di tritolo e chissà, forse, bazooka, lanciamissili…Ma dove vogliono arrivare con questi strumenti di guerra? Ho paura che il maledetto cammino di queste belve preveda tappe sempre più gravi.
Voi, mogli, madri, sorelle, figlie dei mafiosi svegliatevi dal torpore che vi fa accettare tutto questo come ineluttabile. Voi avete nelle vostre mani il destino dei vostri uomini. Salvateli. Salvatevi. Salvateci.
Palermo muore ancore sotto la peste, come nel 1630 quando arrivò una Santa Rosalia a salvarla.
Ma dobbiamo davvero aggrapparci ai santi per non soccombere sotto quest’altra peste? I vostri uomini sono gli untori dell’epoca più buia di questa umanità in ginocchio.
Date loro una mano perché si sollevino.
Voi donne potete farlo. Non comportatevi come i tanti palermitani che invece adorano malamente i santi. Come fanno con Santa Rosalia riempiendola d’oro mentre bisognerebbe colmarla di opere buone, di pentimenti reali.
Non può essere felice la vostra santa per questi doni effimeri, per queste celebrazion idove la festa pagana sovrasta il lutto dell’anima. Non si può adorare Rosalia solo illuminando le strade, succhiando babbaluci la sera del Festino, succhiando lumache fra baracche unte, tremando d’emozione per le bombe dei giochi pirotecnici alla Marina.
Ludico popolo di Palermo, protagonista della tragedia dell’incoscienza, della mancata coscienza del Male, della sua passiva accettazione, non puoi adattarti in questa tenebrosa condizione come se fosse una condanna biblica, mentre Dio è fuori gioco e i colpevoli si celano nella follia degli indifferenti.
Popolo di Palermo trema d’orrore al ricordo delle bombe di questo giogo crudele manovrato dai suoi oppressori. Succhia la verità dalle tue carni e gridala forte per liberarti fra le piazze zeppe di guitti in questo luglio senza festa. Illumina con la verità le strade che tenti invano di colorare con festoni e luminarie. Io vi perdono ma dovete inginocchiarvi.
Voi non ci credete ma io non conoscevo nemmeno i vostri nomi. Chi è Provenzano? Chi sono Asaro, Agate, e Santa Paola, i Cuntrera e i Caruana? Riina è un pentito? L’hanno ucciso? Facevo queste domande due, tre giorni dopo la strage di Capaci scoprendo di non sapere niente, di ignorare perfino i nomi di questi latitanti che tanti dicono di cercare da vent’anni e che forse nessuno ha mai voluto trovare.
Ma per reazione alla vostra malvagità lo Stato sembra essersi svegliato dal torpore e, oltre a schierare a schierare l’Esercito in Sicilia, comincia a catturare chi è inseguito dalla legge, com’è accaduto alla fine della brutta estate per il capomafia di Caltanissetta, Giuseppe Madonia, e per Pasquale, Paolo e Gasparre Cuntrera, tre fratelli che chiamano addirittura i ministri del riciclaggio internazionale, tre signorotti finalmente estradati dal Venezuela, impacchettati su un aereo e spediti in Italia.
Falcone dava loro la caccia da dieci anni e, tre giorni prima della strage, con Claudio Martelli aveva incontrato a Roma il ministro della giustizia venezuelano insistendo sull’estradizione.
Ha vinto da morto e i Cuntrera hanno perduto da vivi, come quel Madonia, un altro nome che non mi diceva niente e che ho impresso in mente da quando ho sentito il parroco di Gela. Ha rivelato che schiere di giovani perduti in questa casbah mafiosa sono cresciuti proprio alla scuola di Madonia, nel mito di un uomo che non può proporsi nemmeno come modello per le sue due bambine.
A loro penso: dalla piccola di tre anni e alla più grande di dieci anni, convinta come sono che il tormento di un capomafia sia anche una signorinella che cresce alta e vispa facendo tante domande, andando a scuola e tornando a casa, come tutti i suoi compagni, con i temini contro la violenza.
A Gela la violenza s’è abbattuta su ragazzi di quindici anni prima armati di pistola e poi uccisi e seppelliti in montagna, tra i rifiuti. È questo il mito che offrite ad intere generazioni?
Cosa dite ai vostri figli? Che cosa direte loro? Raccontano che Provenzano ha due figli, che Riina ne ha quattro. Siete pronti a cambiare? Cambierete? Anche Buscetta quando fu preso era solo un mafioso. Io spero nel vostro ravvedimento o, almeno, nel pentimento di quanti vi stanno attorno perché non si può passare la vita a seminare morte, a dare copertura agli uomini politici che avete foraggiato, che vi hanno usato, che si sono lasciati usare.
Chi ha favorito quei loschi affari oggi trema, ha sempre più difficoltà nel rispettare i patti scellerati , nel dare copertura all’interno dello Stato e rischia la vendetta di una mafia ferita ma non rassegnata a farsi mollare da chi ha allevato.
Voi mafiosi, voi corrotti siete nei guai, braccati nelle vostre stesse case perché quel che io intuisco lo capiranno i vostri figli e, guardandovi negli occhi, faranno scattare l’odio per il padre.
Accadrà quando scopriranno la rovina di un’esistenza e allora, come io spero, in assenza di un pentimento reale dei genitori, potranno ribaltare e violare il comandamento divino, potranno ribellarsi e rinnegarvi.
Vorrei poterlo dire guardando con pietà e con amore ognuno di questi ragazzi: rinnega tuo padre, se è mafioso.
A questo vorrei condannarvi signori della morte mentre la mia fede mi obbliga a parlare del perdono perché è scritto nella Bibbia e nella Storia di Cristo che in croce ha invocato il Padre:” Dio perdona loro”.
Debbo farlo anch’io dalla mia croce, le croci che mi avete scaraventato addosso il 23 maggio e il 19 luglio.
Io invito al perdono, escludo la vendetta ma chiedo alle belve di inginocchiarsi e agli uomini di agire per fare vera giustizia.
Questa lettera ai mafiosi è una preghiera agli uomini. L’ho scritta ma non chiedetemi di leggerla ad alta voce perché ci ho provato e riesco solo a piangere”.
Fonte bibliografica: Rosaria Schifani, Felice Cavallaro.
Lettera ai mafiosi. Vi perdono ma inginocchiatevi.