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Milano più sociale. Periodico di informazione online

Si chiamava Annelies Marie Frank.

Conosciamo Anna attraverso un Diario divenuto emblema della Seconda Guerra Mondiale e dello sterminio del popolo ebraico.
Scritto a partire dal 12 giugno 1942, trovò fine il primo agosto 1944. Tre giorni più tardi, infatti, le SS fecero irruzione all’interno dell’ormai notissimo “Alloggio Segreto”, nascondiglio che ospitò la ragazzina e i suoi familiari per proteggerli dagli orrori generati dal regime. Pagine lunghe anni, nate dalla lucida intelligenza di un’adolescente. Fogli tracciati da intense riflessioni, dai quali traspare tenerezza e amore, ma, soprattutto, mai rancore o rassegnazione. Può bastare la lettura di un manoscritto per affermare di conoscere Anna? Chi è stata Anna prima di vivere da “clandestina”? Cosa le accadde (o come visse) dopo la deportazione al campo di Westerbok, per passare poi ad Auschwitz- Birkenau, fino a vederla perire a Bergen- Belsen?

Perché? Quale molla ha fatto scatenare uno sterminio di massa?
Siamo intorno ai primi anni 80’, quando sette donne, nonostante la pressione psichica ed emotiva a cui il loro interlocutore le sottopose, decisero di raccontare. Tutte donne, che, senza eccezioni, vissero, conobbero o incontrarono la nostra giovane amica. Del resto, come scrisse la stessa Anna “ Quel che è accaduto non può essere cancellato, ma si può impedire che accada di nuovo”..
Annalise Marie, la piccola che tutti chiamavano Anna, fu una bambina speciale. Racconta Miep Gies : “ Sembrava un animaletto di peluche. Aveva solo quattro anni. Era timida e si attaccava alla mamma. .Aveva due occhioni grandi e scuri che spiccavano sul suo visino delicato e assorbivano ciò che le girava intorno”.


Ragazzina affascinata da tutti gli oggetti che agli adulti apparivano inutili: carta da pacchi, spago, contenitori, tram e biciclette. Un giorno, il suo faccino s’illuminò: una macchina da scrivere! Miep, guidò le sue piccole manine su quella tastiera, e lei, scoppiò di felicità quando riuscì a stampare qualche lettera su un foglio bianco; emotiva, desiderosa di notizie, testarda e gentile allo stesso tempo, perennemente in castigo in quanto eccessivamente chiacchierona, sempre pronta ad esprimere il proprio pensiero in modo carino attraverso la scrittura “Qua, qua, qua, diceva la signorina beccoqua”.

Con brutalità e odio, il nazismo colpì adulti e bambini: caduti nelle mani dei nazisti, nessuno aveva più possibilità di decidere del proprio futuro, del proprio destino.
Arresti, viaggi dalla durata infinita su treni merce, donne e uomini ammassati l’uno sopra l’altro senza poter respirare un alito di aria pulita, freddo, tanto freddo, caldo, atroce caldo e poi, la tensione, l’incognita di ciò che sarebbe (o non sarebbe) stato, selezioni e, nel caso in cui il soggetto fosse stato ritenuto utile al processo lavorativo, beh, aveva possibilità di sopravvivere, altrimenti, li attendeva un forno crematorio o una camera a gas.

Immaginate: persone che non potevano essere magre, avere brufoli, ulcere o pustole: dovevano essere  perfettamente integri. Queste le condizioni per avere una chance.
La vita nei campi di sterminio  era abominevole. Non esisteva igiene: vi era dell’acqua se si riusciva ad avvicinarvisi. Si moriva di fame e di sete. Il cibo quotidiano si riduceva a un pezzettino di galletta; qualche volta un pezzettino di burro, forse, se andava bene, un cucchiaino di miele.
Scopo del trattamento delle SS, oltre allo stermino, era quello di degradare come essere umano, tormentare fino in fondo, ridurre a stracci privi di volontà, eliminare stima in se stessi e dignità. Dignità che assumeva svariate sfumature: un gruppo di prigioniere francesi che cantavano la Marsigliese mentre venivano accompagnate nelle camere a gas, donne che si gettavano contro fili attraversati dalla corrente per ribellarsi a una non vita, solidarietà che si traduceva nel proteggersi l’uno con l’altro. Qualcuno all’interno di baracche impazzì del tutto e, gettarsi contro reticolati elettrici ne fu una conseguenza.
Fame, sete, paura, biancheria intima inesistente e abiti troppo leggeri.
Cadaveri fuori dalle baracche nell’attesa di essere gettati in fosse comuni. Ecco, ciò che visse Anna, nel corso di quei sette mesi che uniscono la vita alla morte. Il giorno in cui venne deportata insieme alla famiglia, aveva un’aria sportiva: indossava una tuta e uno zainetto. Giunta a Westobork, venne assegnata alla baracca punitiva.
Neanche in questo luogo perse la sua indole allegra. Così, la racconta Rachel Van Amerongen-Frankfooder: “Nella baracca S incontrai anche la famiglia Frank. Otto Frank, sua moglie e le sue figlie. Otto Frank venne da me con Anna e chiese se Anna poteva aiutarmi. Anna era molto gentile e mi chiese pure se poteva dare una mano. Disse: So fare tutto, sono pratica. Era davvero molto cara, un po’ più grande delle foto che conosciamo di lei, allegra e di buon umore”.
Poi, Auschwitz, Bergen-Belsen

Chiudo gli occhi, riesco a vederla: attraverso un filo spinato, nel cuore della notte, parla con la sua amica d’infanzia e piangendo le dice di non avere più i genitori; dopo la separazione dal padre difatti, pensò di averlo perso, ne diede scontata la morte. Anna è un pezzo di ghiaccio, magrissima e rasata; lei, che teneva così tanto ai suoi capelli, quei lunghi capelli che attorcigliava in ricciolini.

Contrae la scabbia. Ronnie Goldstein- Van Cleef: “Le due ragazze Frank avevano un brutto aspetto, coperte di macchie e di vescicole di scabbia. Sulle mani e sul corpo. Ci mettevamo un po’ di pomata sopra, ma c’era ben poco da fare. Quelle chiazze ce l’hai dappertutto. Erano ridotte davvero male; mi sembravano rassegnate. Non c’erano indumenti, ci avevano tolto davvero tutto e giacevamo completamente nude sotto una specie di coperta”.
Anna perì a Bergen-Belsen.  A seguire questa lenta morte furono Rachel e Jenny: “Erano quasi irriconoscibili perché gli avevano tagliato i capelli, erano molto più pelate di noi, non so come ciò sia possibile. E avevano freddo. Erano magrissime, avevano un aspetto terribile. I loro volti si fecero deperiti, pelle e ossa. Avevano i posti peggiori nella baracca. Giù vicino la porta che si apriva e si chiudeva di continuo, le sentivi gridare: Chiudete la porta, chiudete la porta. Quel suono diveniva ogni giorno un po’ più debole. Le vedevi lentamente morire tutte e due con altre I sintomi del tifo si manifestarono chiaramente in loro: quel disfacimento lento, una specie di apatia, alternata a riprese, fino a quando peggiorarono in modo tale che non ci fu più speranza: ma arrivò anche per loro la fine. Non so chi sia stata portata fuori per prima, se Anna o Margot”.

Janny Brandes – Brilleslijper :”A un certo punto negli ultimi giorni, Anna stava davanti a me avvolta in una coperta. Non aveva più lacrime. Eh, da tempo non le avevamo più e raccontò che le bestioline la facevano rabbrividire, e che aveva gettato via tutti i suoi vestiti. Eravamo nel cuore dell’inverno, lei era avvolta in una coperta. Radunai tutto quello che potevo trovare per darglielo, affinché fosse di nuovo vestita. Da mangiare non ne avevo molto, ma detti qualcosa della mia razione di pane ad Anna. Due giorno dopo andai a dare un’occhiata alle ragazze Frank. Erano morte tutte e due! Prima Margot era caduta dal letto, sul pavimento di pietre; non era più in grado di reggersi in piedi Anna morì un giorno più tardi. Avevamo perso la cognizione del tempo. È possibile che Anna sia vissuta un giorno in più. Tre giorni prima era in preda a visioni allucinanti causate dal tifo petecchiale”.
A conclusione di queste righe,  mi rivolgo direttamente a te, cara Annalise: sei un soffio di vita nel bel mezzo della morte, un raggio di luce circondato dall’oscurità, un battito d’amore aggredito dall’odio; sei la speranza per l’avvenire.

Riprendendendo le tue parole: “Non penso a tutta la miseria, ma alla bellezza che rimane ancora. So quello che voglio. Ho uno scopo, un pensiero, la fede e l’amore. Permettetemi di essere me stessa, e sarò soddisfatta. So che sono una donna, una donna piena di coraggio e di forza d’animo>”.
Ciò che  iniziasti e la sorte bruscamente interruppe, trovò conclusione proprio grazie al ricordo di ogni tua compagna di prigionia.
Miep Gies : “ Lessi tutto il Diario senza fermarmi. Sin dalla prima parola sentii la voce di Anna tornare, per parlarmi. Persi la nozione del tempo; la voce di Anna scaturiva fuori dal libro piena di vita, umori, di curiosità, di sentimenti. Non era più morta e scomparsa: tornava a vivere nella mia mente. Il vuoto che avevo nel cuore si era come attutito. Molto era andato perduto, ma ora la voce di Anna sarebbe rimasta: la mia giovane amica aveva lasciato al mondo un’eredità straordinaria”.

Piccola, dolce e consapevole cronista di una “ guerra senza confini”.

Ecco la difficoltà di questi tempi: gli ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora sorte in noi che già sono colpiti e completamente distrutti dalla crudele realtà. È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”
Anna Frank

Fonti bibliografiche
Anna Frank, Diario
Miep Gies, Si chiamava Anna Frank
Willy Linder, Gli ultimi sette mesi di vita di Anna Frank

Mara Cozzoli

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