Spiegando la violenza sulle donne. Intervista a Chiara Sainaghi, referente centri antiviolenza Fondazione Somaschi.
Violenza fisica e psicologia, realtà la cui origine, di natura culturale, ancora oggi nel 2021 affligge la società. Dialogo oggi con Chiara Sainaghi, referente dei centri antiviolenza di Fondazione Somaschi onlus.
Come prima domanda le chiedo di esporre l’attività svolta da Fondazione Somaschi.
Fondazione Somaschi Onlus si prende cura e accoglie le persone più fragili della società, in particolare minori con situazioni familiari molto problematiche, donne vittime di violenza e sfruttamento sessuale, persone senza fissa dimora. Nell’ambito del contrasto alla violenza domestica, insieme ad altre realtà del Terzo Settore, fa parte della Rete Antiviolenza del Comune di Milano e dell’hinterland. Nel capoluogo lombardo gestisce un centro antiviolenza, mentre è punto di riferimento per tutto l’hinterland con 5 presidi principali più 5 sportelli decentrati negli ambiti territoriali Adda Martesana, Rho e Garbagnatese, Sud-Est e Paullese, Visconteo, Sud Milano e Corsichese. Gestisce inoltre 7 case protette dove, nelle situazioni più difficili, garantisce un rifugio sicuro alle donne maltrattate, sole e con figli. Nel corso del 2020 sono state accolte 545 donne e ricevute circa 700 chiamate in reperibilità telefonica. Sono inoltre state ospitate in cas rifugio oltre 40 donne sole o con figli che hanno avuto necessità di protezione.
Al fine di non creare confusione ed evitare così il passaggio di informazioni errate, vuole illustrare il suo ruolo all’interno di Fondazioni Somaschi?
Sono responsabile dei servizi antiviolenza di Fondazione Somaschi Onlus. Il mio ruolo è quello di coordinare l’attività dei centri antiviolenza nelle loro diverse sedi e in relazione alle reti territoriali a cui appartengono. Infatti, se il centro antiviolenza Segnavia di Milano è di Fondazione Somaschi, nelle reti di Melzo, Rho, San Donato Rozzano, la Onlus è Ente gestore, cioè gestisce l’attività in seguito alla partecipazione ad una gara ad evidenza pubblica.
Entriamo nello specifico del tema “Violenza sulle donne”. Stiamo parlando di un problema di natura culturale, che tocca due aspetti: fisico (violenza fisica) e psicologico (violenza psicologica).
Minando l’autostima, conducono al rischio che questi stati si tramutino in abitudine.
Uno stupro devasta la vita.
Quali sono le dinamiche in cui incappa una donna?
Le chiedo di entrare nel merito della questione.
“La violenza maschile contro le donne è fondata sulla disparità di potere tra uomini e donne ed è un fenomeno sociale strutturale che ha radici culturali profonde riconducibili ad una organizzazione patriarcale della società che ancora oggi permea le pratiche della vita quotidiana di milioni di uomini e donne. La riproduzione di questa struttura avviene attraverso rappresentazioni collettive basate su stereotipi i quali incidono sull’immaginario e sui comportamenti collettivi creando le condizioni per una giustificazione ed una perpetuazione della violenza maschile sulle donne.”
Premesso questo, sappiamo che la violenza – intesa come disparità di potere nelle relazioni intime e come disparità di opportunità a livello sociale – si manifesta in diverse forme (psicologica, fisica, economica, violenza assistita, sessuale) alcune più evidenti e riconoscibili, altre più sottili e difficilmente riconoscibili. La violenza psicologica, sempre presente quando parliamo di violenza di genere e di violenza domestica, in principio è fatta di saltuarie affermazioni di svalutazione e/o di richieste di attenzioni sempre più esclusive da parte del partner, con manifestazioni di gelosia sempre più marcate e tendenza al controllo su tutti gli aspetti della vita sociale della donna. Spesso pone le basi per manifestazioni di violenza più esplicite, come la violenza fisica.
Le donne che accedono al centro e raccontano la loro storia descrivono in modo molto chiaro questo meccanismo. È, una dinamica che si manifesta gradualmente e che la donna tende a normalizzare e a giustificare “fa così perché è stanco”…”forse potevo essere più gentile con lui”…. “sua madre non gli ha mai dato le attenzioni giuste”….. La giustificazione nasce dal disorientamento generato dall’essere “colpite” in modo così profondo nell’ambito di una relazione di intimità scelta da loro stesse. E’ un fatto che spesso per lungo tempo, non si riconosce e che in seguito risulta molto doloroso accettare.
La gravità della violenza psicologica risulta evidente per i segni profondi che lascia e per i danni che produce: perdita dell’autostima, della possibilità di gestirsi in modo autonomo, sfiducia in se stesse e nelle proprie capacità, progressivo senso di solitudine, di fallimento, di vergogna. Le donne tendono ad attribuirsi la colpa di quanto accade nella coppia e da qui la crescente difficoltà di rileggere la relazione in modo obiettivo e di vedere delle possibili alternative.
Come procede il vostro lavoro con quest’ultima?
Il ruolo del centro antiviolenza è essenzialmente uno spazio per sostenere la donna nel processo di riconoscimento della violenza subita e di accompagnamento in un precorso di allontanamento dalla violenza. Il passaggio fondamentale per le donne è di sentirsi comprese, non giudicate per quanto stanno vivendo, e di poter avviare un dialogo finalizzato ad una rilettura della propria situazione. Da qui la possibilità di comprendere quali possibili scelte alternative intraprendere per la propria vita e spesso anche per la vita dei propri figli. All’interno del centro le donne trovano un’equipe multidisciplinare con competenze in ambito sociale, psicologico, pedagogico, legale a loro disposizione.
Il centro lavora in rete con i servizi del territorio, con le Forze dell’ordine e con Il sistema sanitario (pronto soccorso), i servizi sociali. A volte capita che il centro venga chiamato dalla Polizia o dai Carabinieri che hanno appena raccolto la denuncia di una donna che non intende far più rientro a casa o per ragioni di sicurezza o perché non è più disponibile a sopportare neppure per un momento la situazione di violenza. In questi casi c’è la possibilità di trovare soluzioni alternative attivando le reti della donna o, quando il rischio per la sua incolumità e quella dei figli è elevato, di offrirle la possibilità di essere ospitata in una casa rifugio.
I servizi del centro sono gratuiti ed è garantito il rispetto della privacy. L’accesso al centro è libero e non c’è un vincolo territoriale. Le donne possono far riferimento anche a centri distanti dal loro territorio di residenza.
Molto spesso si associa un uomo violento a una particolare patologia psichica. Ha voglia di abbattere quest’erronea convinzione, spiegando come violenza e patologia devono essere affrontati seguendo due percorsi differenti.
Agire violenza all’interno di una relazione intima è una scelta per la quale non esistono giustificazioni. Il fatto che questo tipo di condotta rappresenti un reato, esprime in modo inequivocabile questo concetto. Ci sono delle azioni compiute in piena libertà di cui è necessario assumersi la responsabilità. Non è una patologia psichiatrica o la dipendenza da sostanze la causa della violenza di genere, ma come dicevo prima, una dimensione culturale che talvolta non consente il chiaro riconoscimento di alcune azioni come illecite e che spesso “giustifica” la violenza e non la “denuncia” nella sua gravità.
È possibile per gli uomini che compiono violenza fare un percorso per scegliere di mettere in atto comportamenti differenti e imparare a stare nelle relazioni intime in modo diverso, riconoscendo l’altra persona come pari a non come proprio possesso. Si tratta di accompagnare la persona in un percorso di assunzione di responsabilità rispetto a quanto agito ma anche di responsabilità rispetto alla possibilità di essere lui stesso la prima risorsa per determinare il proprio cambiamento, la responsabilità di liberarsi dal ruolo di “carnefice” sicuramente scomodo ma talvolta preso ad alibi per non farsi carico del proprio cambiamento. Difficile intraprendere questo percorso da soli. Per questo ci sono dei servizi che si pongono questo obiettivo e che sono a disposizione sul territorio.
Percorsi del tutto diversi sono quelli dedicati alla salute mentale o alla cura di patologie da dipendenza. A volte sono presenti anche in uomini che agiscono violenza ma si tratta di due problematiche distinte. Curare la dipendenza non significa modificare la tendenza ad agire violenza all’interno delle relazioni intime.
Quali sono i tratti distintivi di un uomo violento, come riconoscerlo? La storia racconta che nella maggior parte dei casi ci troviamo difronte a soggetti che, sull’inizio di una relazione riescono a mascherarsi bene, ma con il passare del tempo arrivano anche a manipolare, oltre a esercitare violenza fisica.
Tante donne si commuovono quando nel racconto vengono credute dalle operatrici del centro perché i loro partner sono persone che al di fuori della relazione con loro sono “insospettabili”. Spesso persone affermate lavorativamente che ricoprono posizioni di rilievo. Non possiamo ricondurre chi agisce violenza ad un identikit. La violenza è trasversale ed estremamente diffusa. Come per le donne, anche gli uomini possono avere differenti livelli di scolarizzazione, condizione socio economica e cultura di provenienza. Dobbiamo fare attenzione a non costruirci stereotipi che ci rendono ancora più difficile riconoscere la violenza.
Nel 2018 Fondazione Somaschi ha creato un programma di rieducazione dell’uomo violento.
Descriverebbe questo programma, soffermandosi sull’importanza e la necessità di tale riabilitazione?
Secondo le stime più recenti, in Italia ogni 3 giorni viene compiuto un femminicidio. Gli uomini autori di violenza nell’85% dei casi reiterano il proprio comportamento, spesso con un’escalation di gravità. Dati allarmanti che portano a chiedersi sempre di più se punire gli autori di violenza sia sufficiente per prevenire e contrastare la recidiva in modo efficace. Per questo Fondazione Somaschi ha scelto di avviare un progetto sperimentale, completamente autofinanziato, dedicato alla rieducazione degli uomini maltrattanti.
Si chiama Non più violenti ed è partito a Milano nella primavera 2018. Si tratta di un percorso gratuito guidato da uno psichiatra e uno psicoterapeuta con incontri di gruppo a cadenza quindicinale. L’obiettivo è guidare i partecipanti alla presa di coscienza della gravità delle azioni compiute e all’apprendimento di nuove strategie di comportamento, con un monitoraggio costante della violenza anche tramite il confronto con le compagne degli uomini coinvolti. Gli uomini che partecipano possono presentarsi spontaneamente, su richiesta della compagna vittima di violenza o in seguito all’invio di servizi sociali, legali di parte e autorità giudiziarie
Ricordiamo che questa tipologia di soggetto non ha la cognizione di ciò che è (ovviamente, questa non è una scusante), anzi, è convinto di agire bene.
Come centro, lavorate sulla consapevolezza e sull’empatia. Vuole sottolineare l’importanza di entrambi gli elementi?
Gli obiettivi principali del lavoro sono: il riconoscimento della propria responsabilità, il riconoscimento delle conseguenze che il proprio agire violenza provoca nei confronti della partner e dei figli, l’apprendimento di modalità alternative di gestione di emozioni quali la rabbia, la frustrazione, il senso di solitudine.
Il passaggio del riconoscimento della sofferenza provocata è una svolta importante del percorso. Soprattutto quando sono presenti dei figli, rendersi conto che il proprio comportamento può provocare in loro una sofferenza consente di dare una spinta più significativa al cambiamento. Non sempre accade, a volte gli uomini abbandonano il percorso prima di arrivare a quel punto.
C’è poi tutto un aspetto educativo su cui lavorare, comprendere cosa è lecito e cosa no, educarsi alla relazione con la partner per sradicare modalità apprese e culturalmente fondate. Diciamo che su questi aspetti un’ampia fascia della popolazione potrebbe avere necessità di lavorare. Da qui l’importanza del lavoro che si porta avanti con i bambini e gli adolescenti nelle scuole ma anche nei luoghi di aggregazione a loro dedicati.
L’inconsapevolezza rende l’accesso spontaneo difficoltoso. Come ogni processo curativo se affrontato dietro una qualunque forma d’obbligo, risulta inefficace. Stiamo parlando di percorsi che oltre alla già citata consapevolezza, richiedono costanza, sicché gli uomini che ne fanno richiesta sono ancora pochi. Ad ora, in quanti si sono rivolti a voi?
Ad oggi gli uomini coinvolti nel progetto Nonpiùviolenti sono in tutto 32, di ogni età (dai 18 ai 70 anni), principalmente italiani. Non tutti hanno portato a termine il percorso, soprattutto quest’anno, con gli incontri tenuti forzatamente a distanza. I risultati però sono incoraggianti: sul totale di uomini che hanno partecipato al trattamento finora si è registrato un solo caso di recidiva, e si tratta di un uomo aveva appena iniziato a frequentare il gruppo.
Cosa significa per un uomo accettare di compiere questo passo?
Al momento significa riconoscersi come autore di violenza prima di aver fatto un percorso, cosa che risulta complessa. Per questa ragione, infatti, sono pochi gli uomini che accedono spontaneamente. Anche su questo punto la dimensione culturale ci potrebbe aiutare, a partire dai servizi preposti all’accompagnamento dei cittadini nei passaggi critici della loro vita. Un precoce riconoscimento della problematica potrebbe orientare gli uomini a una richiesta di aiuto in una fase in cui il loro comportamento non ha ancora assunto la dimensione del reato. Invece, al di fuori dei servizi, rendere più evidente il tema della violenza senza stigmatizzare nè chi la subisce nè chi la compie potrebbe rendere meno difficile chiedere aiuto.
Molto spesso la stampa utilizza espressioni del tipo: “raptus di follia”, quando la realtà è ben altra: ci troviamo innanzi a femminicidi preannunciati.
Titoli di giornale riportano: “Ragazzina di sedici anni, ubriaca fradicia stuprata da un gruppo di coetanei”. Questa a mio avviso costituisce “ errata informazione”, condotta senza coscienza del fatto che le parole hanno un peso, veicolano il pensiero altrui e possono distorcere la realtà.
Sono espressioni che concedono un’attenuante alla gravità del reato.
Vuole dirci qualcosa al proposito?
Molto spesso nel titolo della notizia si legge già la giustificazione dell’atto di violenza compiuto. Questa modalità di comunicazione è la fotografia del punto in cui siamo, come società, nel riconoscimento e nella presa di consapevolezza collettiva di cos’è la violenza, di quanto sia diffusa e dei danni che provoca a livello individuale, economico e sociale. Gli organi di stampa e i media sono d’altro canto uno strumento potente che potrebbe svolgere un ruolo “educativo” straordinario su questo tema, concorrere nel processo di trasformazione culturale imprescindibile per contrastare la violenza di genere e promuovere una cultura del rispetto della differenza di genere e delle pari opportunità.
CI troviamo in piena emergenza sanitaria, nel corso del lockdown, cosa è accaduto? Mi riferisco a casi di violenza e richieste d’aiuto.
Nel primo lockdown la sorveglianza da parte dell’autore di violenza è diventata costante rendendo molto difficile per le donne anche solo contattarci telefonicamente. Nel solo mese di marzo, infatti, abbiamo registrato una riduzione degli accessi ai centri di circa il 40%. Ma la convivenza continua e forzata ha spesso acuito le situazioni di maltrattamento, per questo nei mesi successivi abbiamo assistito a una forte ripresa delle richieste di aiuto.
Quale messaggio vorrebbe lanciare a tutti coloro che ci leggeranno?
Un tema centrale nel contrasto alla violenza di genere è quello della solitudine. È la solitudine delle donne, ma anche degli operatori, dei centri antiviolenza e degli uomini. La società trova strategie che consentono di gestire le situazioni di violenza in “rete” nella consapevolezza che l’attività del centro è fondamentale ma da sola non è sufficiente. Il movimento che proviamo a generare ogni giorno è il coinvolgimento dell’intera comunità, dove ogni persona può esercitare la propria responsabilità e compiere nel quotidiano piccoli gesti che possono fare la differenza per i propri figli, vicini di casa, conoscenti o sconosciuti. A volte anche il semplice messaggio “vedo ciò che ti sta accadendo” può aiutare una donna vittima di violenza a prendere lo slancio necessario per avviare un percorso di cambiamento. Non rimanere indifferenti a quello che può capitare a una coppia di amici, non prendere a giustificazione il fatto che “sono cose loro”…e così via. La violenza di genere non riguarda solo le donne che finiscono in pronto soccorso con lividi e ferite – talvolta mortali – riguarda tutti: chi la subisce, chi la compie ma anche chi ne è testimone, e talvolta ne rimane silenzioso o indifferente. È responsabilità di tutti agire in modo concreto per porvi fine. Dal 2020 appena concluso abbiamo imparare a lavarci le mani e ad igenizzarle di continuo, ma riguardo alla violenza di genere “non laviamocene le mani”.
In conclusione, ringraziando Chiara per il tempo concessomi e ricordando che sensibilizzazione e prevenzione sono alla base di una vera battaglia al fenomeno, comunico i recapiti a cui, chi subisce violenza può rivolgersi.
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