Helmut Newton e la figura femminile.
Fotografo tedesco naturalizzato australiano, Helmut Newton, pseudonimo di Helmut Neustdàdter nacque a Berlino il 31 ottobre 1920.
Noto al mondo per lo studio sui nudi femminili, voce di desideri inconfessabili, narratore di piaceri negati, modellò la sua immagine sulla scia di chi, effettivamente, visse quanto mostrò.
Una convinzione lo accompagnò sempre: ”Bisogna sempre essere all’altezza della propria cattiva reputazione”.
Rispetto alla relazione tra la propria arte e la vita, molti si posero (e si pongono ancora oggi) una domanda: “ Fu davvero un bad boys?”.
Fino all’ultimo dei suoi giorni affermò: “Se dovessi vivere come nelle mie fotografie, sarei morto da un pezzo”.
Sono svariate le testimonianze che lo riguardarono.
Coloro che ebbero modo di frequentarlo nel privato lo descrissero come un uomo dal fare cordiale, all’apparenza bambinesco, ironico e ostile alla formalità.
Chi lo intervistò, asserì di averlo udito rendere merito a personalità che, come Jaques Henry Lantigue e Gyula Halàsz, gli furono maestri.
Osservato sul lavoro venne sottolineato il grande rispetto per il corpo della donna.
Un uomo dalle mille sfumature, un dissimulatore, allo scopo di proteggere se stesso e giungere a noi come l’ossequioso caposcuola dell’odierna femminilità.
Per meglio comprenderne la figura occorre però tornare al 1938, quando diciottenne prese un treno a Berlino e, con passaporto riportante la parola jude, scese a Trieste per imbarcarsi su una nave che lo condusse a Singapore, lontano dai suoi affetti e da una Germania ormai dilaniata da leggi razziali.
Giunto a Singapore venne assunto come fotogiornalista dallo Straits Times anche se, poco dopo, subì il licenziamento a causa dell’ inefficienza nella ricerca di notizie.
Di quel periodo rimase l’avversione per le sale posa e l’amore verso gli spazi aperti con luce naturale.
Nell’era delle lotte femministe, innumerevoli furono le critiche che gli piovvero addosso, accusato di dare un’immagine scellerata della donna, di riportare attraverso i suoi scatti le volgari e degradanti fantasie sessuali dell’uomo occidentale, fino all’etichetta di guardone.
“Certo che sono un voyeur. Qualsiasi fotografo lo è. Chi non lo ammette è un idiota”.
Vi è un’immagine emblema della fotografia di Newton: una donna, nuda, ma con indosso un paio di scarpe, formosa viene immortalata dietro e di fronte grazie a uno specchio che riflette anche il fotografo, il quale indossa un impermeabile leggermente aperto all’altezza dell’inguine; i vestiti della modella sono gettati disordinatamente in terra. Lo specchio riflette anche un’altra presenza femminile, apparentemente posizionata al di fuori della stanza: compaiono infatti due gambe e un paio di tacchi a spillo.
Poco distante dallo specchio una terza donna: June Newton che lo osserva lavorare. Lo scatto risulta essere un gioco di spazi, riflessi, sguardi e pone l’accento sul desiderio.
Per quale motivo le donne di Newton, nude, indossano i tacchi?
A suo dire, una donna, non è realmente nuda se non ne calza un paio.
Rispetto ai soggetti venne rimarcato come, il corpo femminile, fu studiato con costanza dal fotografo.
Noto è il dittico in cui, quattro virago, persero improvvisamente i propri capi d’abbigliamento firmati, trovandosi così ignude: ciò che non scomparve furono proprio i tacchi.
Donne “pericolose”, dominatrici, forti e salde, seppur nude.
Sembra dicano: “Attenzione, sono priva di indumenti, ciò non significa che non possa proteggermi”.
“Arrivano!” fu il titolo dato allo scatto.
Il fotografo varcò il limite del proibito, passo dopo passo, con estrema prudenza, tant’è che prima degli anni Ottanta, le pagine delle riviste non ebbero ad oggetto nudi newtoniani, nonostante fosse un noto e ben pagato fotografo di Vogue.
L’arte di Newton non derivò dall’istinto: studiò, curò e costruì tutto con saggezza, annotò tutto su taccuini, luoghi in cui prese materialmente vita il lato creativo di quest’ultimo.
Sicuramente, portò alla luce quanto presente nell’immaginario erotico del maschio occidentale.
Provocatore?
Di certo non indietreggiò nel momento in cui decise di mettere in posa le sue modelle sotto al muro di Berlino, innanzi alle lapidi dei fuggitivi uccisi dai poliziotti.
Inevitabilmente trascorso personale e arte si intrecciarono.
Ricorda: ”Avevo tre o quattro anni ed ero steso a letto nell’appartamento dei miei genitori in Innsbruckerstrasse. Era notte, è sempre notte – ho moltissimi ricordi notturni. La mia balia, si sta preparando per uscire. È seminuda. Indossa un paio di mutandine ed è seduta di fronte allo specchio in camera mia. Si sta truccando ed è molto bella. Questa è stata la prima volta che ho visto, o ricordo di aver visto, una donna seminuda di fronte a uno specchio”.
Probabilmente il suo lavoro fu una rivincita rispetto al disagio provato fino all’età di dodici anni, lasso temporale nel quale fu costretto a vestirsi da “fanciulla” con completini di velluto, colletti in pizzo e capelli a carré.
Si spense il 24 gennaio 2004 all’età di ottantaquattro anni.
Cittadino del mondo, non piantò mai radici in nessun luogo bensì, cambiò patria come si cambia abito: Germania, Australia, California, Londra, Parigi, Montecarlo e non solo.