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Depressione e suicidio in età evolutiva. Intervista a prof.ssa Michela Gatta direttore dell’ Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile Azienda Ospedale-Università di Padova.

| Mara Cozzoli |

In compagnia di Michela Gatta, professoressa e neuropsichiatra infantile che,  nel corso di “La tua Vita conta”,  evento virtuale promosso da Telefono Amico  Italia in occasione della Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio”,  ha tenuto un suo intervento a tema, affronteremo i delicati temi di depressione e suicidio in età evolutiva.


Buongiorno professoressa Gatta, racconterebbe non solo a me, ma anche a tutti coloro che ci leggeranno, in cosa consiste il disturbo depressivo e in che modo si manifesta nell’adolescente?

È un disturbo del tono dell’umore sul versante negativo con diversi sintomi che lo caratterizzano.
Sul piano cognitivo ed emotivo, la persona è apatica, demotivata, triste, con aspetti di autosvalutazione, disperazione e mancanza di speranza e, anche sul  piano comportamentale, connesso con questo stato psico-emotivo, si manifestano difficoltà nel portare avanti le attività, scolastiche piuttosto che lavorative.
Vi possono inoltre essere sintomi sul piano fisico, più o meno presenti a seconda delle forme cliniche e dell’età, con un’alterazione del ritmo sonno/veglia, disordine alimentare e dei ritmi biologici della persona.
Di conseguenza è un quadro molto articolato che tocca il ragazzo e la persona su diversi versanti: fisico, psicologico, emotivo e, chiaramente, relazionale e comportamentale, perché cambia la predisposizione a muoversi nel mondo, nelle attività, nelle relazioni e in tutto ciò che l’individuo deve fare.


Quanto incide la depressione su ideazione, minaccia, tentativo e infine suicidio riuscito?

Sicuramente, il suicidio e più in generale la suicidalità intesa come un’area vasta che va dall’ideazione, alla minaccia, al tentativo e poi purtroppo al suicido riuscito, è fortemente associato al problema della depressione.


Era proprio questo a cui volevo arrivare.  Il suicidio parte da un dolore mentale che si ha la certezza di non essere in grado di poter superare.
Come si può intervenire?

Allora, la problematica è molto sfaccettata, articolata, e quindi anche gli interventi devono essere tali.
Il più delle volte, queste persone necessitano di interventi e trattamenti su diversi ambiti e da parte di diversi professionisti.
Sicuramente può essere utile un aiuto di tipo psicologico, e un intervento di tipo psichiatrico nel momento in cui sono necessarie anche visite mediche ed eventualmente un supporto farmacologico.
Pensando ai ragazzi, oltre ai clinici quali lo psicologo e il neuropsichiatra infantile, sono molto importanti professionisti socio sanitari della riabilitazione, in particolare l’educatore è una figura indispensabile, che facilita il riadattarsi e la ripresa delle attività e delle interazioni relazionali. Sono cioè figure terapeutiche di sostegno e accompagnamento che, attraverso la relazione con l’adolescente, lo supportano nella quotidianità e negli aspetti di integrazione tra mondo interno e mondo esterno, consentendo gradualmente il recupero di un equilibrio emozionale, lo sviluppo di autoconsapevolezza delle proprie capacità, e la possibilità di sperimentarsi nell’ambiente sociale e nelle attività adattive.
Psicologo, neuropsichiatra infantile, educatore è importante facciano rete e lavorino in modo integrato.
Non è così facile purtroppo trovare risposte complete, soprattutto nell’ambito dei servizi del SSN in cui le richieste sono tante e le risorse sono poche. Chi ha la possibilità, spesso, integra quanto può fornire il sistema pubblico con risorse personali, trovando nel privato i trattamenti difficilmente reperibili nel pubblico.
Fondamentale è poter dare delle risposte globali quindi su diversi versanti; quando dico ciò e, parlando di minorenni in particolare per noi che lavoriamo in quest’ambito, mi riferisco anche all’importanza del lavoro con i genitori e con i famigliari, proprio perché la famiglia è l’ambiente più importante di vita dei ragazzi.
È vero che specie in adolescenza si aprono all’esterno, alla scuola, agli amici,  ma i riferimenti genitoriali sono sempre importanti, e il più delle volte sono in qualche modo coinvolti nelle problematiche stesse dei ragazzi.
Sintetizzando, lavorare con i genitori è un modo indiretto per arrivare ad aiutare il ragazzo stesso.


Lei è una tecnica, vive queste storie in prima persona.
Vorrei farle allora una domanda: per quale motivo i genitori non si rendono conto tempestivamente dei segnali che un ragazzo sta mandando?
Insomma, depressione, suicidio, in quelle che abbiamo detto essere le diverse varianti, non nascono da un giorno all’altro: sono un processo.

Io credo che i fattori siano veramente tanti, in gioco ci sono aspetti individuali, magari legati a difficoltà stesse dei genitori di poter riconoscere, anzi, vedere e consapevolizzare il problema. Infatti, talora vedono le difficoltà del figlio ma le negano o le sottovalutano, a volte per il pensiero legato allo stigma, al pregiudizio, al tabù che ruota intorno a queste tematiche. Sicuramente, è più facile portare un figlio a fare una valutazione medica nel caso di problema organico, mentre è più difficile portarlo all’attenzione di uno psicologo o uno psichiatra, laddove c’è una sofferenza di tipo psico-emotivo.
Altre volte, i genitori non considerano il malessere dei figli perché stanno male loro stessi; questo lo dico in quanto associato al problema della depressione e della suicidalità si sa esserci una prevalenza di problematiche  psichiche nel gentilizio di questi ragazzi.
Alcune altre volte gli aspetti sono legati alla difficoltà di comunicazione genitore-figlio che in età adolescenziale è estremamente frequente e per molti versi fisiologico, magari come atteggiamento di chiusura e di coartazione da parte del ragazzo, che rende difficoltoso lo scambio con il genitore che, non sempre, riesce a sostenere tale modalità di interazione.
Per questo il disagio è meno evidente all’esordio.
Alcuni segnali vengono attribuiti agli affetti fase-specifici dei ragazzi, quali irritabilità, instabilità emotiva, modifiche nei comportamenti e nelle abitudini.
Spesso possono essere presi come aspetti tipici di questo periodo evolutivo piuttosto critico che è l’adolescenza, in cui vi sono cambiamenti su diversi piani, sociale, fisico, psicologico e relazionale che caratterizzano la vita dell’adolescente: per cui molte volte il genitore attribuisce il disagio a questa fase, senza rendersi conto che determinati segnali e sintomi dicono invece che il ragazzo sta iniziando a strutturare un disturbo psicopatologico.


Quanto un genitore deve lavorare su se stesso?
Nella maggior parte dei casi, alla base, vi sono, suppongo, dinamiche familiari disfunzionali.

Questo è un aspetto molto importante.
Sicuramente c’è una proporzione importante di famiglie disfunzionali tra i ragazzi che arrivano da noi (faccio riferimento al nostro osservatorio di servizio neuropsichiatrico infantile), con percentuale certamente più significativa rispetto alla popolazione generale: questo dato è noto anche in letteratura.
Tuttavia, anche in situazioni dove non ci sia un importante malessere nelle relazioni intrafamiliari non è sempre così facile e scontato pensare di mettersi in discussione in funzione, appunto, allo stato psico emotivo del figlio. In fondo, dobbiamo pensare che un ragazzo adolescente ha un genitore che, in media, sta attraversando una fase della vita dove prospettive, progetti, novità affettive, relazionali e lavorative sono ormai definite.
Generalmente, parliamo di genitori che hanno dai quarantacinque ai cinquantacinque anni, a volte anche oltre. Sono quindi fasi esistenziali molto diverse da quelle che sta vivendo il ragazzo, che si apre alla vita, il cui corpo sta sbocciando e i cui genitori, parallelamente, sono adulti che iniziano ad avere una situazione personale, lavorativa e relazionale che prevede progettualità non piu’ ad ampio raggio come è in età giovanile.
Quindi, il genitore si trova in un momento in cui deve elaborare tanti aspetti di cambiamento, io utilizzo un termine forse eccessivo ma per rendere l’idea, che è più di “decadimento” che di “rinnovo e vitalità” rispetto al figlio, almeno in senso generico e di primo acchito.
Da questo punto di vista, nell’ambito della relazione con il figlio, per i genitori potrebbe essere difficile fare i conti con tutti gli elementi suddetti. È difficile mettersi in discussione e fare delle considerazioni su di sé, in quanto occorre andare a rovistare nel proprio mondo interno che è fatto un po’ anche di tutti questi lutti della giovinezza da elaborare, con possibilità di progettualità sicuramente minori rispetto ad altri momenti dell’esistenza.
Tanto è vero che spesso l’adolescenza dei figli coincide con la crisi della coppia genitoriale.
Gli adulti, i genitori, si trovano dunque in una fase delicata.
Quando lei mi dice : “Ma perché è così difficile che si mettano in discussione ?”,  credo che questi elementi citati entrino in gioco in modo importante.
Quando si riesce a mettersi in discussione e a mobilitarsi, la crisi del figlio diventa un momento di crisi personale e di coppia, da cui si può uscire anche rinforzati e migliorati.
C’è chi invece evita questi temi perché potrebbero mettere in discussione e in difficoltà ancora di più.


Nello specifico, lo stato  o disagio del genitore è inevitabilmente trasmesso al figlio?

Sicuramente sono disagi che toccano la interazione tra genitore e figlio.
Tante volte ci troviamo a lavorare con i ragazzi e affrontare delle difficoltà che sono transgenerazionali o che magari hanno a che fare con problematiche legate al rapporto genitori/figli, o problematiche che i genitori hanno strutturato in seguito alla propria storia personale, e che in qualche modo proiettano sui figli.
Di conseguenza, seguire questi ragazzi e poterli aiutare nei momenti di difficoltà, implica prendere in carico anche i genitori.

Come si distingue un problema tipico della fase adolescenziale da qualcosa di più grave?
Da quanto mi diceva prima, questo è uno dei nodi cruciali.

Non è semplice, ma si possono tenere in mente alcuni punti.
Quando ci sia una ripetitività dei comportamenti, del problema, se questo dura nel tempo e con caratteristiche disfunzionali uguali a se stesse, con poca flessibilità e cambiamento, ciò depone per un problema più strutturato, cioè per una psicopatologia, piuttosto che una caratteristica della crisi tipica adolescenziale.
Un altro aspetto da considerare come indice di un problema o meno, è valutare se il funzionamento che il ragazzo manifesta sul piano delle relazioni o del comportamento o dell’apprendimento, sia in continuità o meno con il passato, piuttosto che essere una novità.
Ancora, un altro aspetto importante è capire quanto il ragazzo sia consapevole del comportamento/problema , cioè quanto riesce a fare una connessione tra il proprio mondo interno (emozioni, stato psicologico, pensieri) e i suoi comportamenti. Laddove c’è questa consapevolezza con tali capacità di connessione, è più probabile riuscire a fare con il ragazzo un lavoro che permetta di superare le difficoltà e riprendere un percorso evolutivo adattivo.
Anche il contesto familiare può aiutare ad orientare. Famiglie problematiche si associano piu’ frequentemente a presenza di disordini psichici nei figli.

Cosa accade quando manca tale consapevolezza?

Nel momento in cui non vi sia alcuna consapevolezza che la propria sofferenza, i propri comportamenti disfunzionali, le relazioni che ti creano difficoltà, abbiano in qualche modo un’origine interna, è molto difficile aiutare i ragazzi,  e riuscire a  incanalarli in un percorso evolutivo adattivo.
Come anticipato, altro elemento che ci dice che questo comportamento è più di una crisi evolutiva è anche l’ambiente in cui vive il ragazzo. Quando la famiglia è presente, con genitori in grado di mettersi in discussione in merito a quanto sta succedendo, questo certamente è un segno positivo.
Se la famiglia è poco presente, o presente fisicamente ma non emotivamente o sul piano relazionale, nel senso che non investe sugli aspetti psicoemotivi e affettivi del figlio, non si mette in discussione, non si mobilita rispetto a quanto sta succedendo, ciò è un possibile indicatore di un problema che si sta strutturando in senso psicopatologico, piuttosto che di una crisi adolescenziale fisiologica.
Alcuni comportamenti quali l’isolamento sociale e la chiusura, devono sempre destare un certo sospetto.
L’adolescente per natura è una persona che sta connessa con i pari, che si confronta ed investe molto nell’ambito extra familiare rispetto a quello familiare. Quindi, i ragazzi che si chiudono, riducono le relazioni, la frequenza di luoghi extrafamiliari devono far pensare a segnali di difficoltà, a maggior ragione quando trattasi di ragazzi che fino a prima avevano avuto una buona socialità e una buona relazionalità.
Da tenere d’occhio sono anche gli atteggiamenti di tipo aggressivo soprattutto quando non si manifestano solo a casa, ma anche fuori,  a scuola e con gli amici.

Come riuscite ad accompagnare un ragazzo alla consapevolezza di cui mi parlava poc’anzi?

In generale ci vuole molta pazienza, empatia, tolleranza verso il dolore e la sofferenza che nutrono questi ragazzi.
Altro, è la modalità tecnica che fa parte dell’intervento specialistico.
Fondamentale è la relazione da cercare di costruire: priva di giudizio, autentica, di fiducia, e a sostegno della responsabilizzazione rispetto alle proprie difficoltà e possibilità di affrontarle.
Se trovi il ragazzo che si aggancia e si attiva in un percorso di lavoro sulle proprie difficoltà e competenze, allora la prognosi è favorevole.
Quelli più difficili sono coloro che non hanno consapevolezza del problema, che fanno fatica a connettere e a creare un legame con quanto accade dentro di loro, in relazione ai loro comportamenti e azioni. È come se vedessero il problema solo fuori, il problema sono solo gli altri: ambiente esterno, scuola, amici, genitori. Questi spesso sono i ragazzi che rifiutano un intervento terapeutico e laddove vengono dallo specialista, ‘costretti’ dai genitori, è molto difficile accompagnarli in un percorso di riconoscimento del problema e dei meccanismi del loro mondo interno connessi con le proprie difficoltà.
Quando è impossibile lavorare in senso psicoterapico, perché con alcuni non si riesce ad intervenire se non c’è un minimo di aggancio, allora è ancora più necessario puntare sui genitori per arrivare indirettamente al figlio. Spesso, accompagnando e veicolando il padre e la madre alla comprensione del significato piu’ o meno nascosto dietro l’atteggiamento del figlio (in sintesi: quale messaggio si cela dietro un determinato comportamento? Cosa ci sta dicendo nostro figlio e come si sente?) aiuta anche il ragazzo a comprendere i meccanismi sottostanti ai propri vissuti e modalità di comportarsi.


A livello cognitivo, rispetto alla fase evolutiva che stanno vivendo, cosa accade?

Quello che si sa è che in adolescenza vi è un’attività neuronale ed una plasticità neuronale molto attiva, un po’ come succede nei primi anni di vita, in particolare di alcune aree cerebrali -frontali, parietali e temporali – che sono delle aree del nostro cervello che in questo periodo si sviluppano. Sono aree cerebrali con correlati funzionali legati al controllo del comportamento, ragionamento per ipotesi, strutturazione di valori, capacità di posticipare la realizzazione dei propri bisogni e desideri, sviluppo di competenze tanto intellettive quanto di memoria, di problem solving, di autocontrollo, ecc..
Quindi tutte quelle funzioni che ci dicono che l’adolescente matura nella possibilità via via di maggiore adattamenti e apprendimenti, migliori capacità sociali e relazionali.
Ciò che si è visto e che si sta ancora studiando è che i circuiti neuronali e l’attività neurotrasmettitoriale, in alcune situazioni psicopatologiche, prevedono un funzionamento alterato rispetto a quanto accade nella fisiologia.

Ancora una volta, era questo il punto a cui volevo giungere: queste situazioni psicopatologiche, in che modo vanno a intaccare le facoltà cognitive?

È un circolo e una concatenazioni di eventi, nel senso che ci sono delle alterazioni nello sviluppo neuronale che si esprimono attraverso dei sintomi psico/comportamentali che, a propria volta, implicano, attraverso l’espressione di alcuni geni piuttosto che altri, delle modalità di funzionamento e di relazione che rinforzano il circuito neuronale disfunzionale stesso.
Studi molto interessanti di neuroimaging funzionale e che indagano l’attività di alcune aree cerebrali con determinate tecniche, prima e dopo il trattamento, evidenziano che trattamenti nell’ambito psicoterapico e neuropsichiatrico nell’età evolutiva vanno proprio a modificare i circuiti,  cioè, come un farmaco modifica alcune funzioni neuronali che da disfunzionali ricominciano a funzionare in modalità fisiologica, si è visto che anche l’intervento psicologico può intervenire modificando le connessioni neuronali. Trattasi in particolare di studi sulla psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale (ma ci sono anche altre tecniche psicoterapiche).
Questo ci dice anche che alla base di tali problematiche, di tipo psicopatologico, vi sono aspetti neurobiologici che interagiscono e vengono condizionati da stimoli ambientali e dalle esperienze che accadono nel contesto in cui il ragazzo cresce.

Secondo lei, è possibile prevenire?

Assolutamente sì. Un discorso generale può essere fatto tenendo appunto in mente che la malattia psichiatrica è il risultato di cause multifattoriali, più fattori che tra loro interagiscono. C’è una predisposizione biologica, genetica e vi sono elementi ambientali ed esperienziali in gioco. Influenzandosi vicendevolmente, genetica, biologia e stimoli ambientali, danno vita a quanto noi vediamo in termini di sviluppo psicomotorio, di comportamento, di affetti,  relazioni e adattamento della persona.
C’è da dire che per diverse patologie fattori biologici e ambientali hanno un diverso peso dal punto di vista eziologico.
Faccio un esempio: i disturbi dello spettro autistico sicuramente hanno una componente genetica e biologica forte, rispetto ad altre problematiche tipo quelle della sfera ansiosa e nevrotica, in cui la componente ambientale è molto significativa.
Dunque,  vi sono alcune patologie in cui è prevalente la componente genetica su quella ambientale, altre in cui la componente ambientale prevale rispetto a quella biologica -genetica.
Sapere questo aiuta rispetto alla possibilità di intervenire, perché in alcune situazioni che ho nominato,  il riconoscimento precoce e l’intervento precoce può  veramente accompagnare lo sviluppo del bambino fin dall’infanzia di modo che si possa recuperare una traiettoria di sviluppo più simile a quella tipica.
Laddove sappiamo che la componente ambientale è molto significativa, vuol dire che l’intervento su figlio e genitori e sulla consapevolezza di alcune dinamiche personali e interattive è estremamente utile per modificare in senso migliorativo la situazione. L’intervento abilitativo e riabilitativo-terapeutico può essere di natura psicologica e/o psichiatrica e/o farmacologica.
L’aspetto preventivo vero, cioè quello che evita il  presentarsi del disturbo, dovrebbe essere molto precoce e far parte di interventi da porre in essere con i genitori e i bambini già nei primi anni di vita. Sono quindi interventi psicoeducativi, sulla genitorialità, sugli aspetti psicofisici e di regolazione emotiva.
Interventi di prevenzione secondaria si basano sul riconoscimento precoce di comportamenti e sintomi indicativi di un disturbo per evitare che questo si strutturi.

In ultimo, perché un ragazzo arriva a pensare che il suo dolore non sarà mai sanabile e optare quindi per il suicidio?

In termini di motivi non esiste una singola risposta.
Potrebbe essere un ragazzo estremamente fragile e vulnerabile, con bassa autostima e che fa fatica a tollerare le frustrazioni a causa di alcuni aspetti temperamentali e personologici propri: di conseguenza vive come insormontabili problemi o sfide della vita che, magari, per altri ragazzi non lo sono.
Viceversa potrebbe essere un ragazzo o una ragazza che vive un contesto familiare molto disagiato, difficoltoso,  o che ha vissuto esperienze traumatiche molto gravi che lo ha fatto sentire impotente innanzi alla minaccia.
Che il problema sia in partenza, o prevalentemente, individuale o ambientale, ciò che percepisce la persona che pensa al suicidio è che la sua sofferenza, il suo disagio, è insopportabile, non riesce a conviverci, è insostenibile; e l’altra situazione che spesso si associa all’ideazione suicidaria, che poi si tramuta in vero e proprio gesto,  è pensare che questa sofferenza non è curabile e non ha soluzione.
Sono ragazzi che si sentono disperati in modo insopportabile e dal loro punto di vista non esiste una soluzione, il che li fa sentire anche molto soli e incompresi.
Da qui, si innesca l’idea del suicidio come possibile soluzione.
Questa ideazione si deve poi rinforzare e  strutturare per poter passare al gesto. Gesto che per altro richiede una certa dose di coraggio.
Spesso sono ragazzi soli che non hanno relazioni significative che riescono a incidere sulla loro difficoltà e hanno anche a disposizione la possibilità di oggetti pericolosi che permettono di passare all’azione.
Anche qui ci sarebbe molto da dire.
Vi sono tentativi di suicidio che, nel peggiore dei casi, riescono e che sono frutto di un lungo  periodo di pensieri e pianificazioni.
In altre situazioni, il ragazzo che soffre e che tenta il suicidio lo fa a seguito di un impulso, come un gesto incontrollato e imprevedibile; a volte sono presenti stati di coscienza non del tutto integri a causa di problemi psichici o altro come l’uso di sostanze. Viene riferito spesso uno stato dissociativo, per cui  il pensiero non è collegato all’azione.

In generale sono situazioni molto variabili, diversificate, che vanno prese una per una perché ogni ragazzo/a e relativa famiglia vanno conosciuti in modo specifico.

Concludendo ringrazio Michela Gatta direttore dell’ Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile della Azienda Ospedale-Università di Padova.

Mara Cozzoli

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