I racconti crudeli. Intervista a Marco Riva.
“ll mondo spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Ma quelli che non spezza li uccide. Uccide imparzialmente i molto buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non siete tra questi, potete esser certi che ucciderà anche voi, ma non avrà una particolare premura” scrive Ernest Heminguay a indicare la contrapposizione morte e vita, fragilità e forza.
Nel libro d’esordio di Marco Riva, tali elementi, in perenne conflitto, trovano un loro punto di equilibrio.
Detto ciò, lascio che sia l’autore a narrare la filosofia alla base di “ I racconti crudeli”, edito gruppo Albatros con prefazione di Barbara Alberti.
Sei un avvocato, ti alzi una mattina e decidi di dedicarti alla scrittura
Sorge così la tua prima opera “ I racconti crudeli”.
Quello che ti chiedo è di raccontarmi il percorso che ti ha portato a scrivere un libro.
In realtà è nato tutto su invito o impulso, chiamiamolo come vogliamo, di un amico.
Sai, si era messo in testa di scrivere lui un libro, cosa che poi ha fatto, e mi ha proposto un lavoro a quattro mani.
Alla fine, lui è andato per la sua strada e io per la mia, in quanto mi sono ritrovato nella condizione di non riuscire a scrivere ciò che mi chiedeva, qualcosa cioè di più leggero.
Io, mi sono trovato a scrivere di morti, di sventure e sventure.
In questo contesto, e non so per quale motivo, ho scoperto che ci stavo anche bene.
Quindi, sì, è nato dallo stimolo dell’idea originaria dell’ amico Antonio e del suo : proviamo!
Nella parte introduttiva scrivi : “Essere un poco crudeli e non metterci troppo cuore”.
Questo mi riporta un po’ al concetto di porre limiti e paletti. Qual è la tua posizione in merito? Riesci effettivamente a porre limiti e paletti, nella quotidianità?
Sì, questo sì.
Non metterci troppo cuore, mi conduce a fare un ragionamento che viene prima di quella frase.
L’idea che le cose succedono è alla base di quello che viene dopo, è inutile, secondo me, opporsi al destino, non nel senso che non lo si può cambiare, ma che determinate cose accadono e il nostro margine di azione è la reazione a quello che succede.
Non posso avere la presunzione di cambiare, ad esempio la morte che è il simbolo più alto di” le cose succedono”, però, non vi è solo essa, vi sono tanti fatti che ogni giorno accadono.
Sarebbe una rinuncia quella di non intervenire, ma sarebbe altrettanto inutile opporsi troppo ottusamente.
Da qui, deriva il non metterci troppo cuore, secondo me.
Occorre evitare di dire: “ la morte è ingiusta , o ingiusto un incidente che ti mette sulla sedia a rotelle, ovvio che entrambe le situazioni sono ingiuste e inevitabili, è la reazione successiva che deve essere determinante”.
Questo è non sono lo spirito della mia affermazione, ma anche di tutti i racconti.
Il libro è strutturato in sette racconti che , a mio avviso, sottolineano anche la fragilità umana.
Esatto, la fragilità e la forza dell’animo umano, spero, almeno, questo sia arrivato.
La forza, reagire, prendersi carico delle proprie fortune e sfortune e comunque non smettere mai di scavare con le due dita, ad esempio, la particolarità dello sciatore è che si trova sotto la neve, non può muoversi e l’unica cosa che gli è permessa fare è pensare. Non smette di scavare, forse è inutile, ma non ci ha rinunciato.
Tra l’altro, “Il fuori pista” è molto claustrofobico. Devo dire che leggendolo, ho vissuto l’angoscia, la paura e ogni stato d’animo dello sciatore.
Hai avuto una mano che è riuscita a trasmettermeli.
La mia volontà era proprio quella di infondere claustrofobia nel lettore, l’essere immobilizzati, completamente e, allo stesso tempo, non rinunciare a pensare.
Quel millimetro che la vita mi ha dato lo sfrutto, anche se non dovesse portarmi da nessuna parte, io continuo a scavare.
Quando lo sciatore dice: “ Invece faceva davvero caldo, tanto che abbiamo deciso, sia io che Jacopo, di ritornare in camera ad abbandonare uno degli strati di vestiti che avevamo indossato per affrontare la giornata di discese sciistiche. E si sa che quando si verificano questi sbalzi esagerati di temperatura la neve non si compatta e le slavine sono molto più probabili. Si sa… ma non ci si pensa”, è possibile considerare questa riflessione come un’assunzione di responsabilità?
In questo caso l’obiettivo era solo di dimostrare che le cose capitano, basta un piccolo gesto, insignificante, come rientrare e togliersi un maglione per cambiare tutto il tuo destino.
Azzarderei, quindi, una fragilità rispetto agli eventi.
Descrivi inoltre molto bene il dolore, rappresentato dal filo rosso che unisce la vita e la morte, filo che non viene spezzato, portando così l’esistenza ad assumere una nuova consapevolezza.
Esatto. Mi rendo conto che ho usato la morte come emblema del dolore in sé.
Nella vita possono compiersi miliardi di avvenimenti dolorosi tanto quanto la morte.
Credo che dal punto di vista letterario o del racconto, sia scenicamente quello più facile da mettere sulla carta, morte che poi è anche lo spettro più alto del dolore.
La sofferenza è dentro la vita, c’è chi ne ha meno e altri che vivono quest’ultima con patimenti.
Penso che questo libro arrivi anche in un momento nel quale la Pandemia ha messo ognuno di noi a stretto contatto con la morte. Noi sappiamo che è parte della vita, che toccherà a tutti, ma in questi ultimi due anni, è entrata come un fulmine nelle nostre abitazioni e dentro di noi.
Secondo me viviamo in un’epoca in cui, la morte se da un lato è all’ordine del giorno, basti pensare a programmi televisivi dedicati ai gialli, a telefilm nel quale vi è un morto ogni cinque minuti, dall’altro lato, in alcuni casi è esorcizzata, ad esempio quando rifiutiamo di portare i nipotini al funerale del nonno, perché il bambino non deve essere portato al cimitero.
La verità è che quest’ultima è un fatto, non puoi né escluderla, né spettacolarizzarla.
In un certo senso la pandemia l’ha rimessa, purtroppo, al suo giusto posto, nella collocazione del “ c’è, può entrare nelle nostre case e non attraverso uno schermo”.
In “L’esattore”, protagonista è un calciatore, super sicuro di se stesso, a tratti appare peccare di superbia.
In campo, sicuramente.
Improvvisamente, un evento ne modifica il percorso di vita, i sogni, le speranze, ma il destino è accettato con estrema serenità.
Questo personaggio non è completamente inventato. Un mio amico, dopo un incidente in moto, ha perso l’uso delle gambe. Un grande atleta, fortissimo dal punto di vista fisico, da un giorno all’altro si è trovato da “In piedi” prima, a “seduto” poi, ed è un ragazzo pieno di energia. Come il personaggio del racconto, seppur divida la sua vita da prima e dopo, la forza interiore rimane comunque la stessa, nulla cambia.
La forza del corpo subisce una sorta di capovolgimento, quella che ha dentro, invece, rimane invariata.
Ciò che volevo inculcare nella mente è che occorre essere forti prima, durante e dopo.
Il protagonista si definisce fortunato; la fortuna e la sfortuna non possono determinare la tua forza perché deve essere quella a prescindere.
Passiamo a “ Vietato gettare oggetti dal finestrino”. Figura di spicco è uno studente universitario, un ragazzo chiuso, insicuro, represso con pressioni esterne che gli impongono di agire in un certo modo.
Meditandoci, decide di prendere voce, di uscire dallo stato di invisibilità attraverso un tentativo di suicidio.
Lui ci pensa soltanto, poi, perché e come finisca fuori dal finestrino del treno non è chiarito. Subentra infatti, un fatto sovra naturale, che può essere vero o forse dallo stesso immaginato.
Devo dire che c’è molto di me, di quando andavo all’università, prendevo il treno e ritornavo, posto che non ho mai buttato oggetti dal finestrino o pensato di buttarmi sotto la metropolitana, ciò che spero è di aver reso una condizione giovanile bene o male passata da tutti: decidere se essere un fantasma o essere qualcuno.
Lui balla su questi due estremi senza sapere quale scegliere.
Ringrazia Milano che gli permette di essere invisibile, un fantasma, ma dall’altra parte avrebbe voglia di affermare se stesso, una volontà che lo spingerebbe addirittura sotto al binario di una metropolitana.
Questo insomma era il buon Matteo Cesana, che tra l’altro è il nome e cognome di un mio amico e che ho gentilmente preso in prestito.
Ho notato un particolare: l’emergere del senso di colpa, non appena non rispetta il divieto ad esempio di non gettare gli oggetti dal finestrino, al momento cioè della ribellione all’obbligo, mette anche ben evidenza lo stato di repressione in cui fino a quel momento ha vissuto.
Il tentativo era quello. In quella serata si ritrova a trasgredire a tutte le regole: passa con il rosso, passa oltre la striscia gialla della metro.
Quella sera, tutte le minuscole trasgressioni le mette in fila, salvo poi, appena getta la bottiglietta dal finestrino, arriva la punizione, ovvero il senso di colpa.
Sono anche stato anche un po’ cattivello, perché a un ragazzo represso faccio pagare subito la piccola serata di follia che si è concesso: fisicamente attraversando con il rosso, mentalmente picchiando e facendo scappare il presunto rapinatore.
Interessante è anche “Crudeli”, affronti il tema dell’infanticidio.
Mi ha molto colpito.
Innanzi tutto è lo specchio della realtà: una comunità che, senza mezze misure condanna l’instabilità psichica che ha condotto al compimento di quell’atto.
Mentre, una coppia, guardata male da tutti perché vive in completa solitudine, perché non si perde in inutili chiacchiere di Paese e saluta giusto per educazione, di contro la protegge, la perdona.
Per riprendere il passo: “ Vorrei pregare per Alfredo, il padre dei bimbi, che tanto li ha amati, perché possa meritare misericordia e perdono” prosegue: “ Il medico serve al malato non hai sani. Perché i vostri due bambini, io lo so, stanno già riposando tra le braccia di Dio”.
L’obiettivo era proprio quello.
Ho volutamente santificato i due protagonisti, tanto che li descrivo come perfetti: non litigano mai, salutano sempre tutti e si mantengono fuori dalle beghe di paese.
Volevo che si capisse che il gesto del perdono è un atto non sovra umano in quanto è alla portata di tutti gli uomini, però richiede un coraggio superiore alla condanna.
Il perdono della fragilità è un atto di coraggio, da chi decide di compierlo.
Negli altri racconti capitano sfortune a cui i soggetti devono reagire, qui non capita una sfortuna, ma una tragedia.
“Crudeli” è lì per un discorso mio letterario: è l’opposto rispetto all’ Achab iniziale, in “ Nottorno”, il signor C, afferma: “Sono come Achab che vado a cercare la morte”, Moby DicK è la storia di una vendetta, Achab, così come lo definisce Melville è “monomaniaco e roso dal desiderio di vendetta”.
Nell’ultimo mio racconto, la vendetta è esclusa totalmente, anzi, vi è il perdono totale, anche dell’imperdonabile.
Ho voluto chiudere un ciclo con un gesto di perdono, l’opposto esatto della vendetta.
Quanto di Marco è presente nella psiche di ogni personaggio?
In alcuni tanto, soprattutto, nel racconto dei suonatori, tanto del Signor C, in altri meno.
Nello sciatore c’è poco o niente.
Eppure hai descritto così bene lo stato claustrofobico.
Lì perché ho voluto giocare nel mettermi nei panni dell’altro, ho fatto l’attore.
Mi sono messo nella parte di chi è dentro e non riesce a muoversi, come anche nel caso del calciatore, sono entrato in quella determinata situazione per capire cosa avrei prova.
Scriverai un altro libro?
Non penso proprio, non lo so. Questo è venuto senza volerlo, non ti so dire se ne arriverà un altro.