DCA. Disturbi della condotta alimentare in fase adolescenziale. Intervista a Georgia Broggi Napolitano, psicologa, psicoterapeuta, direttrice comunità terapeutica e servizi terapeutici per adolescenti Fondazione Rosa Dei Venti.
Esplosione nel modo più tangibile possibile di un profondo disagio, i DCA o disturbi della condotta alimentare insorgono, prevalentemente, in fase adolescenziale e costituiscono patologie di natura psichica contraddistinte da un’alterazione delle abitudini alimentari affiancate da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo.
Sono caratterizzati da: riduzione dell’introito di cibo, digiuno, crisi bulimiche (ingerire cioè una notevole quantità di cibo in pochissimo tempo), vomito, uso di anoressizzanti, lassativi o diuretici allo scopo di controllare il peso e, infine, un’intensa attività fisica.
Soffrirne sconvolge la vita e, spesso, intacca le capacità relazionali, lavorative, scolastiche e sociali.
Accompagnata da Georgia Broggi Napolitano, psicologa e psicoterapeuta, ancora una volta, affronto non solo un argomento, ma una mia battaglia personale, affinché meccanismi autodistruttivi vengano bloccati sul nascere, fornendo a genitori e insegnanti idonei strumenti per meglio comprendere i loro ragazzi.
Iniziamo elencando i principali disturbi della condotta alimentare.
I disturbi della condotta alimentare tra i più conosciuti possono essere suddivisi in due categorie: da una parte abbiamo il controllo rispetto all’alimentazione con una riduzione importante dell’assunzione del cibo (anoressia), mentre dall’altra sono presenti abbuffate con susseguente induzione di vomito (bulimia).
Sono due macro categorie che all’interno constano di diverse modalità e livelli di comportamento.
Soprattutto in adolescenza sono presenti disturbi dove non si può, ancora, parlare di anoressia o bulimia, in cui le condotte sono caratterizzate da alimentazione sregolata, induzione del vomito e riduzione importante dell’introito di cibo, seppur non costante.
Cosa rappresenta il cibo?
Il cibo rappresenta un canale molto importante per la gestione delle emozioni: è il nutrimento, noi veniamo alla luce con il bisogno di essere nutriti e, quindi, è un canale che ci connette molto al nostro intimo, al materno e alla salvaguardia della nostra salute; l’alimentazione rappresenta inoltre l’unico elemento che, in molti casi, sentiamo di poter controllare.
Il disturbo alimentare è la manifestazione nella sua materialità di un disagio. Da cosa trae origine?
L’azione sul controllo alimentare nasce proprio dalla necessità di dominare.
La situazione di partenza è una sensazione di smarrimento, impotenza e vuoto, nel quale la persona ha l’impressione che il mondo dentro si rivolti e sente che l’unico modo per poter stare in piedi è agire un controllo su di sé tramite l’alimentazione.
Spesso, il disturbo alimentare viene associato alla richiesta sociale dell’apparenza fisica e corporea, anche perché è in maggioranza presente nel genere femminile, oggetto di richiesta estetica a livello socio culturale.
È però troppo semplice e superficiale asserire che tali modelli estetici sviluppino anoressia o bulimia.
Sì, forse sono prototipi a cui, magari, coloro che sono affetti da questo disturbo si attaccano per spiegarlo e motivarlo, ma in verità le cause sono molto più interne, profonde e intime e ci raccontano di una dimensione del sé fragile e problematica.
La prima manifestazione del disturbo alimentare avviene per lo più in adolescenza perché è una fase molto delicata della vita e rappresenta il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
In questo passaggio ha luogo il processo di separazione/individuazione che conduce a doversi costruire una propria identità che vada verso una propria autonomia e una dimensione di distanziamento dalle figure genitoriali.
Succede che, se la relazione con queste figure e l’impatto che con esse abbiamo avuto nel corso della nostra crescita non è così sicura, questo svincolo diventa difficile e può generare smarrimento e bassa stima di sé fino a sviluppare un disturbo come quello alimentare.
Sottolineiamo che è un disturbo che si sviluppa nel tempo.
Esatto, cresce nel tempo.
Inizia in modo estremamente graduale, anche poco leggibile, sia dalla persona stessa che dalle persone vicine di riferimento, fino a diventare piano piano, quasi una sicurezza.
All’apparenza il controllo sul proprio corpo sembra rendere la persona sempre più sicura di sé, in realtà parla di una totale insicurezza e fragilità nel relazionarsi con se stessi e gli altri.
La causa, quindi, per quanto ogni storia è una storia a sé, va individuata in un IO molto fragile e nella fatica ad affrontare un percorso di crescita e sviluppo identitario.
Sicuramente il contesto in cui si è inseriti può fare la differenza rispetto all’evoluzione della malattia; sottolineo ‘malattia’ perché, spesso, i sintomi della salute mentale non vengono considerati tali, ma le persone necessitano di essere prese seriamente rispetto a questo tema.
Evidenziamo che non si diventa anoressiche o bulimiche, specifichiamo che il verbo “divenire” o “diventare” sono del tutto fuori luogo.
Assolutamente, non c’è nessuno che impone di essere o diventare anoressiche o bulimiche … è una struttura della personalità già organizzata per trovare nel controllo sul proprio corpo una soluzione sintomatica funzionale a risolvere la propria fragilità.
I sintomi risultano, infatti, utili a farci stare meglio in un determinato periodo della nostra vita: sebbene di base siano disfunzionali, sono parte della persona.
Mi sento di utilizzare una frase, che magari può sembrare molto forte, però so che anche lei la condividerà: anoressiche lo si è, nel tempo cambia l’evoluzione e l’approccio al cibo, però è come se quella modalità di controllo su corpo e nutrimento faccia parte della persona e, a seconda del periodo della propria vita o della propria personalità, può essere più forte o più debole e può quindi svilupparsi in un problema oppure no.
Nessuna ragazza pensa: “Oggi inizio a mangiare meno e poi divento anoressica”. Non funziona così.
Strettamente legato al disagio è la dispercezione corporea, una visione cioè distorta della propria fisicità.
Entriamo nel merito di questo punto.
Per dispercezione corporea si intende l’immagine alterata del proprio corpo rispetto alla realtà. Nei disturbi alimentari consta in un’immagine di sé sempre inadatta a livello fisico, dove le persone si vedono più grasse di quanto in realtà siano nel guardarsi allo specchio. Nel caso di anoressia e bulimia nervosa tale sintomo rimane anche dopo che i principali legati all’assunzione del cibo si sono ridotti o interrotti del tutto.
Questo rende la dispercezione corporea un sintomo importante tanto quanto la gestione alimentare poiché può influire significativamente sui fattori di mantenimento ed eventuali ricadute. Rappresenta inoltre un campanello di allarme per genitori e caregiver per cui è importante capire se l’immagine che gli adolescenti hanno del proprio corpo è coerente con la realtà o no.
Negli ospiti e utenti che accogliamo in Fondazione Rosa dei Venti il lavoro sull’immagine di sé corporea è fondamentale sia come screening diagnostico che come intervento terapeutico atto a lavorare sul miglioramento della stima di sé e costruzione identitaria, compito essenziale per la fase del ciclo di vita adolescenziale.
Cosa accade quando si passa allo stato più grave della malattia?
Quando si entra nelle forme più gravi si va incontro a un forte rischio per la salute poiché il corpo viene messo a dura prova.
Si possono raggiungere importanti momenti di sottopeso, i quali, a loro volta, sviluppano diverse patologie fisiche, ad esempio cardiologiche e respiratorie.
Si arriva conseguentemente ai livelli conclamati di questa malattia e la persona deve essere curata contemporaneamente sul piano psico-emotivo e fisico.
Nelle condizioni più gravi è necessario il ricovero ospedaliero e, non raramente, i pazienti arrivano a rischio di morte.
Fisicamente, quali sono i sintomi?
Il sintomo principale, quello visibile all’esterno, è la perdita di peso o, in caso opposto l’obesità.
Vi è poi tutto ciò che la condizione di sovrappeso o sottopeso comporta.
Esternamente, la pelle è disidratata e deve essere curata, unghie e capelli ne risentono, nel senso che è presente uno scompenso ormonale che va ad agire sull’idratazione e la circolazione l’importo vitaminico in generale.
Altri sintomi riguardano gli organi interni, con importanti conseguenze cardiologiche e respiratorie.
Anoressia e obesità sono situazioni che fanno funzionare il nostro corpo in modo disfunzionale perché non gli stiamo dando il nutrimento nel modo corretto o nel modo di cui avrebbe bisogno.
Dobbiamo pensare al nostro corpo come a una macchina, posso dargli la benzina giusta o quella sbagliata, se diamo quella sbagliata, forse, la macchina si muove lo stesso, ma cammina a stento o emette fumo grigio.
L’alimentazione è lo strumento che permette agli organi di funzionare.
Quello che la gente vede è solo la punta dell’iceberg, nel senso che la magrezza o l’obesità sono ciò che si manifesta, ma dentro il corpo è molto sofferente e si arriva a prendersi cura di esso in modo completo solo quando si giunge all’estremo.
In “ Fondazione Rosa dei Venti” cerchiamo di intervenire prima, non appena il disturbo si manifesta e supportiamo le ragazze da un punto di vista psichico. Quando ciò non è sufficiente e la struttura del disturbo alimentare è già strutturata, è necessario alle cure mediche.
Nella norma quando la condizione è molto critica si accede in ospedale come detto prima.
Chi soffre di anoressia si trova in preda al delirio di onnipotenza…
Esatto.
Innanzi tutto, andiamo a spiegare queste parole: Delirio significa avere un’idea non coerente con la realtà, avere pensieri lontani dalla vita quotidiana e concreta in cui si è inseriti.
L’onnipotenza implica il poter fare ogni cosa, poter gestire tutto e avere tutto sotto controllo.
Le due cose insieme implicano un funzionamento che porta la persona a sentirsi estremamente sicura di avere tutto sotto mano, di non avere bisogno di niente e nessuno, di tranquillizzare gli altri dicendo: “Non ti preoccupare, è tutto sotto controllo”.
Spesso, chi ne soffre possiede dei diari alimentari in cui viene annotate minuziosamente tutto ciò che si mangia, nell’ottica di dimostrare e sentire il controllo di ogni cosa che succede.
Questo risponde al bisogno di colmare una forte insicurezza.
In sintesi, se io mi sento insicuro, sono angosciato, mi sento messo in discussione e le soluzioni sono due: o crollo o mi proteggo attraverso una forte sicurezza che metto in campo.
Quest’ultimo genera il delirio di onnipotenza.
Quindi, è possibile asserire che il disturbo alimentare è uno strumento di protezione?
È proprio quello che intendevo dire nel momento in cui ho affermato che i sintomi sono funzionali.
Quindi, anche il delirio di onnipotenza è necessario alla persona per sentirsi al sicuro.
Quest’atteggiamento e questo modo di porsi davanti agli altri è una chiusura, sempre più forte, in sé stessi che inevitabilmente genera difficoltà nel farsi aiutare.
Parte da un bisogno e ne alimenta uno sempre più grande, imprime un’apparente forza alla persona che sente che non si sta perdendo, che tutto va bene e tutto è sotto controllo, proprio nel momento in cui si sta più sgretolando (come ‘un gatto che si morde la coda’).
Si cerca l’invisibilità, ci si rende invisibili, ma attraverso l’ invisibilità si vuole essere visti.
Un po’ una contraddizione.
Il bisogno di essere visti è il bisogno che sta alla base di tutte le patologie legate alla sfera psichica.
Partono tutte da un bisogno di essere visti, non nel senso di avere l’attenzione su di sé, ma di essere accettati come persone con una propria identità, con proprie emozioni ed esigenze, di essere riconosciuti.
Spesso non accade o questo bisogno non viene soddisfatto nel modo che la persona intende.
L’anoressia procede così: ti dico l’esatto opposto di quello che ho bisogno, nel delirio di onnipotenza, invece, ti mostro l’esatto opposto di quello che ho bisogno.
Spesso la solitudine è un esito del disturbo alimentare ma è anche l’esito esattamente opposto rispetto al bisogno da cui è sorto. È questa contrapposizione forte che, appena vista, può condurre a un miglioramento del proprio stato.
Quando si va oltre ciò che uno mostra allora si può creare il gancio, la cosiddetta alleanza terapeutica.
Le facoltà cognitive a lungo andare entrano a serio rischio, nei casi gravi.
Sì.
A volte troviamo ragazzine con un ottimo funzionamento cognitivo che, proprio grazie ad esso, riescono più di altre a percepire la loro sensibilità, il vuoto, l’assenza.
Le facoltà cognitive sono un’ arma a doppio taglio.
Quando dal disturbo si passa alla malattia vera e propria, conclamata, come tutto il corpo è messo a rischio, anche queste funzioni vanno riducendosi.
Il funzionamento cognitivo è legato a un buono stato di salute e di conseguenza, se l’organismo ne risente e viene a calare, anche le facoltà cognitive ne risentono non avendo più l’energia necessaria che arriva dal corpo per poter crescere, svilupparsi e mantenersi.
Si può avere un calo dell’attenzione, delle competenze di base, delle capacità logiche e infine, della verbalizzazione.
Quali sono i campanellini che dicono ai genitori: attenzione, qualcosa si sta inceppando, si sta perdendo.
Il campanello d’allarme più semplice da osservare è legato alla sintomatologia base che è quella del rifiuto del cibo, un altro è quando, magari, subito dopo i pranzi, il ragazzo o la ragazza si recano in bagno perché questo è il momento migliore per indurre il vomito.
Ci sono anche altre sintomatologie più complesse da riconoscere all’inizio, in quanto possono essere viste come una fase caratteriale e adolescenziale, ad esempio il parlare sempre meno, il ritiro relazionale in famiglia ed esterno con una riduzione delle frequentazioni amicali: questi sintomi, purtroppo, non sempre vengono riconosciuti perché rientrano quasi in fasi e comportamenti ritenuti normali nelle sviluppo dei ragazzi.
Mi sento anche di dire che, in alcune famiglie, il comportamento legato alla sintomatologia base è criticato, svalutato e scatta l’idea sociale del: “mangi meno perché vuoi fare la modella o la ballerina”, osservazioni che non vedono il problema reale.
A volte l’andamento scolastico può avere delle variazioni, non per forza in senso negativo: il principio di controllo e dell’onnipotenza porta anche a miglioramenti della condotta scolastica, non dovuta però a stati di benessere, ma a comportamenti ossessivi che vanno a fare da campanello d’allarme.
Negli interventi nelle scuole che come Fondazione Rosa dei Venti portiamo avanti da diversi anni, è importante formare gli inseganti a questi sintomi così che, insieme alle famiglie, si possa intervenire in un tempo funzionale a ridurre il rischio di aggravamento della malattia.
Per quanto riguarda i percorsi curativi, ad oggi, come si sono evoluti?
Sicuramente c’è molta più attenzione dato che negli ultimi la problematica è stata oggetto di discussioni: non è più un tabù e questo fa la differenza perché porta a intervenire per tempo, senza arrivare a uno stadio grave.
Anche la scuola, rispetto al passato, è molto più preparata, ad oggi le scuole sono munite di supporto psico-pedagogico in grado di osservare eventuali cambiamenti e aderiscono di prevenzione in tal senso.
In più nei servizi sono già presenti percorsi di sostegno, tanto di gruppo quanto individuali, che vanno a fare prevenzione o intervenire prima di un esito complesso e grave.
Ovviamente ci sono i livelli più gravi, di conseguenza ci sono veri e propri reparti negli ospedali dove si arriva quando ormai la situazione è compromessa.
Attualmente possono essere attivati servizi domiciliari e diurni che aiutano i ragazzi nella fase di riconoscimento del proprio malessere, di modo che si riduca il bisogno di controllo e non si arrivi alla sintomatologia più complessa di cui abbiamo parlato poco fa.
Nell’ambito della sanità pubblica abbiamo il problema della grande richiesta, quindi i tempi di attesa per gli accessi sono lunghi, ma le strutture ci sono e, spesso, sono anche ben conosciute: grazie al fatto che non è più un tabù se ne parla e le persone sanno a chi rivolgersi.
La mia esperienza è nel privato accreditato con “Fondazione Rosa dei venti”.
Negli anni sono arrivate da noi ragazzine con disturbo alimentare e il lavoro che andiamo a fare è quello di sviscerare la patologia e il problema che sta dietro.
Facciamo un lavoro incentrato sull’autostima, identitario, che va a compensare quel bisogno di sicurezza che si cela dietro alla necessità di essere visti. La possibilità che abbiamo di avere percorsi di supporto ad ampio spettro, dal domiciliare all’ambulatoriale al residenziale, ci permette di poter inquadrare al meglio la situazione individuale e valutare il percorso di sostegno più idoneo.
Parliamo di alimentazione forzata.
Ovviamente, ci troviamo innanzi a situazioni molto complesse e ad alto rischio fisiologico di vita.
Si arriva al ricovero e i ragazzi e le ragazze vengono, inizialmente, alimentati anche tramite sondino o flebo per favorire una ripresa corporea; la prima modalità è quindi passiva.
Sono quei casi in cui non si può lavorare con la persona e occorre partire dalla messa in sicurezza del corpo, salvare quindi la vita.
Si passa poi, gradualmente, da questa tipologia di alimentazione ad un alimentazione forzata che porta il corpo a riabituarsi passo dopo passo e a ingerire il cibo con un regime alimentare molto serrato e controllato, che garantisce alla persona quella dimensione di controllo e precisione e di tratto ossessivo che fa parte della sintomatologia, non più in un’ottica rischiosa bensì curativa.
Tale periodo è molto difficile perché se da un lato c’è il riconoscimento della gravità del livello a cui si è arrivati, dall’altro c’è il rifiuto di guarire perché da qui partono tutte le paure, ad esempio che il corpo possa tornare a funzionare.
Se parliamo di donne in questo senso abbiamo la dimensione del ciclo mestruale dove l’amenorrea è uno dei sintomi di un’anoressia già abbastanza complessa.
Non appena l’alimentazione forzata porta a un peso base che rimette in gioco tutto il corpo e il ciclo ritorna, lì si prova paura e smarrimento: è il momento più delicato perché riemergono angosce e la sensazione è ancora quella di mollare tutto e ritornare indietro perché il funzionamento corporeo rappresenta un rischio e riattiva l’emozione di paura.
Mi è capitato, nel nostro centro diurno “La Corte”, di seguire ragazzine che erano in fase di miglioramento dei sintomi di anoressia e iniziavano a riprendere una forma fisica migliore che trasmetteva un viso più solare, più funzionale, ma che se superavano anche solo di mezzo chilo quello che per loro era il limite sostenibile per stare bene, avevano un forte crollo e una forte angoscia.
Questa fase è davvero critica, si sta emotivamente male: il corpo riparte però non si è pronti e si ha paura che possa succedere di stare male, di perdere il controllo e mettersi a rischio.
In alcune ragazze rientra anche il tema del proprio corpo e della sessualità e quando il corpo cresce e non si è pronte a crescere inizia l’angoscia.
Quella dell’alimentazione forzata è un percorso molto delicato perché siamo di fronte al cambiamento e quest’ultimo non è facile da accettare : serve un grande supporto, medico e psicologico.
Accanto al disturbo alimentare, molto spesso, vengono diagnosticate depressione o altre psicopatologie. Cosa può dirmi in merito?
Nella norma, i disturbi asserenti all’area psichica sono spesso in comorbilità con altri disturbi, principalmente quelli dell’umore.
Si parla di comorbilità perché sono insieme, non c’è qualcosa che arriva prima o dopo.
Sicuramente la depressione rientra nel quadro del disturbo alimentare perché c’è un allontanamento dalla vita e da stimoli progettuali sul futuro: si è concentrati solo sulla situazione presente, non ci si riesce ad immaginare nel proprio futuro e questo è uno dei sintomi anche della depressione, in più le emozioni base di quest’ultima sono rabbia e tristezza, emozioni che innanzi hanno un quadro di insicurezza e fatica nell’affrontare la criticità personale, per cui la rabbia è diretta verso le figure di cura, mentre la tristezza verso la sensazione di solitudine.
Le emozioni base sono coerenticon i disturbi dell’umore e, quindi, vengono associati proprio per questo motivo.
A livello di psicoterapia, l’approccio varia in funzione del paziente?
Ci sono due grandi branche, quella della psicoanalisi e della psicoterapia.
All’interno della psicoterapia sono presenti diversi indirizzi.
Il lavoro che fanno questi differenti approcci è aiutare la persona nel ritrovare un proprio filo conduttore nella vita.
L’approccio migliore è legato molto alla persona, nel senso che, se il disturbo è uguale per dieci ragazze, non è detto che per tutte loro funzioni lo stesso approccio, perché va incontro a bisogni personali e caratteriali e anche rispetto a cosa ha scatenato il disturbo.
Si è visto che la terapia di gruppo può essere utile ed è utilizzata spesso negli ospedali in situazioni più complesse, proprio per andare incontro al senso di solitudine, quindi, con la terapia gruppale si va a sostenere quella parte a non sentirsi soli e a sentirsi compresi.
Attraverso l’altro possiamo, inoltre, osservare noi stessi e le strategie che l’altro ha adottato per stare meglio.
Rispetto ai percorsi individuali abbiamo la terapia cognitivo/comportamentale che aiuta a sostenere il piano del comportamento, ragion per cui è funzionale anche per il comportamento alimentare, dando degli strumenti e della strategie alla persona per aiutarla ad affrontare il proprio sintomo e andando a lavorare sull’idea di sé che, nella stragrande maggioranza delle volte è negativa; si ha l’idea di non valere, non essere adeguate, non essere mai abbastanza e incapaci.
Questa visione, in modo graduale e nel tempo viene trasformata in cognizione più positiva.
Da noi in Fondazione Rosa dei Venti lavoriamo con diversi approcci a seconda delle ragazze, all’interno di un modello piscodinamico e sistemico; sicuramente di base c’è un intervento cognitivo/comportamentale legato al sintomo alimentare, poi però c’è anche un approccio che va a vedere come sono intessute le relazioni verso se stessi e gli altri.
Si lavora sui legami primari, in particolare quello con la madre che in queste situazioni è più forte.
Il cibo è nutrimento e il primo nutrimento arriva dalla mamma.
Ci si muove da un punto di vista psicodinamico per capire qual è il proprio modello operativo interno e l’attaccamento che si è andato a costruire nell’infanzia: è un approccio molto utile, non tanto per risolvere la problematica, ma per trovare delle strategie che ci possano permettere di condurre una vita il più possibile adatta al mondo in cui siamo inseriti e a quello che desideriamo per noi stessi, per poter mantenere un lavoro e relazioni sociali.
La terapia deve aiutare la persona a costruirsi un proprio ambiente e un proprio percorso e mettere in atto strategie per gestire il contesto che si è scelto e costruito.
Per fare ciò utilizziamo diversi strumenti, quali laboratori espressivi e terapeutici in natura, atti a lavorare in modo non solo dialogico, dove il delirio di onnipotenza potrebbe agire in difesa al cambiamento.
Qui, mi risponde alla famosa domanda che tutti si pongono: si può guarire dal disturbo alimentare?
Mi sento di dire che per tutte le patologie afferenti all’area psichica non si può parlare di guarigione, non è un virus o un raffreddore che passa e sei guarito, sono parte di noi.
Se io ho un disturbo alimentare, magari, non sarà più un disturbo, però sarà una mia condotta alimentare: io avrò sempre bisogno di un approccio di controllo, sarò sempre una persona precisa e ossessiva, ma condurrò la mia vita in modo funzionale.
Se sono una persona con disturbo bipolare di personalità, sarò sempre una persona che avrà sbalzi umorali, però il mio basso non mi chiuderà in casa e il mio alto non mi farà correre nudo per strada, semplicemente imparerò a stabilizzarmi in modo da non farmi male.
Una nostra educatrice, parlando di un ospite, ha portato questa metafora: “ È come se fosse un treno che si è dovuto fermare per un guasto, ma il pezzo rotto non si può cambiare, si può riparare e ciò implica una ripresa del funzionamento del treno ad una velocità idonea per non rompere più quel pezzo, che non potrà avere la stessa velocità di prima”.
Non si può parlare di guarigione, si può parlare di stabilità.
Di equilibrio.
Ecco, brava, siamo arrivate alla stessa conclusione.
Crediamo, inoltre, si debba lavorare non solo con il singolo, ma anche con la famiglia, in quanto il paziente rientra in famiglia con essa si relaziona e con le persone di prima che non possono aspettarsi una macchina aggiustata, ma devono imparare il nuovo modo per interagire e vivere con la figlia o il figlio e vederla per quella che è, senza giudizio e senza critica.
Certo, è una missione difficile ma non impossibile.
Per quanto riguarda la prevenzione, cosa possiamo fare?
Sicuramente fare cultura.
Già il fatto che non sia più tabù è un’ottima prevenzione: occorre parlarne.
È utile sapere che ti può accadere questo, informare su quali possono essere i sintomi, i primi campanellini d’allarme e creare spazi di parola per i ragazzi dove possono portare le loro fragilità.
L’ideale sarebbe che queste tematiche venissero affrontata nei contesti frequentati principalmente dai ragazzi, come la scuola, proprio per fare una prevenzione primaria.
Abbiamo tanti canali di informazione, oggi, per poterlo fare, ma non tutte le tematiche svengono sempre affrontate e quella del disturbo alimentare è, invece, una tematica dei nostri tempi importante tanto quanto il ritiro sociale e l’assunzione di sostanze psicoattive.
Sono tre tematiche fondanti la crescita dei ragazzi.
Infine, questa pandemia ha visto aumentare il disturbo alimentare.
C’è stato un aumento importantissimo, da alcune ricerche risulta un incremento del 30%, sembra poco, ma è tantissimo.
È devastante come questa pandemia abbia materializzato prima del tempo determinate problematiche e abbia portato all’incremento del disturbo alimentare, di ansia e dell’umore, tutti elementi, spesso, uniti tra loro.
Le cause, per quanto individuali, vanno cercate nella solitudine in cui tutti si sono ritrovati, lo stare dietro uno schermo e la sedentarietà che ha impedito ai ragazzi di fare attività fisica, relazionarsi con gli amici e ha fatto loro perdere il sano ritmo di vita.
I disturbi alimentari in questo caso sono bilanciati tra anoressia, bulimia e obesità nel senso che lo stare in casa ha avuto, a volte, per alcuni ragazzi l’esito dell’abbuffata per riempire il vuoto attraverso il cibo, salvo poi l’ingresso del senso di colpa che porta all’espellere tramite il vomito il cibo ingerito.
Negli ospedali è stato riscontrato un incremento del 30% , da noi in “Rosa dei venti” abbiamo avuto un aumento esponenziale di richieste di ragazzi segregati in casa con l’emersione di disturbo alimentare e non solo, dove ancora non si parla di anoressia o obesità, ma i sintomi sono coerenti col quadro.
Per info: https://www.rosadeiventi.org/