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Ritiro Sociale in fase adolescenziale. Intervista Dottoresse Marta Ostinelli e Giulia Cattarini.

| Mara Cozzoli |

Mancanza di interazione sociale, vergogna, senso di inadeguatezza rispetto a se stessi e agli altri, infine, senso di disagio percepito durante il passaggio dalla fase infantile a quella adolescenziale.
Cosa accade nella psiche dei nostri ragazzi?
Guidata da Marta Ostinelli, psicologa e psicoterapeuta familiare-individuale e Giulia Cattarini, psicologa specializzanda in Psicoterapia cognitivo costruttivista relazionale, entrambe collaboratrici presso Centro Plinio di Tavernerio di Fondazione Rosa dei Venti onlus, affronto, oggi, il tema del ritiro sociale.

La mancanza di interazione sociale di quale tipologia di disagio è sintomo?

G.C.
In tutte le fasce d’età, sia nei bambini che negli adolescenti, la mancanza di interazione sociale è una situazione che necessita di essere indagata.
Nei bambini è da comprendere e inquadrare in base al momento e al contesto in cui si esprime. È importante, inoltre, distinguere quella legata a motivi di sicurezza, quindi imposta dal periodo storico attuale, da quella “spontanea”, motivata da altre difficoltà.
In adolescenza, la mancanza di interazione sociale potrebbe celare l’esistenza di un quadro di disagio.
Ci troviamo innanzi a una fase dello sviluppo in cui il gruppo dei pari diviene un punto di riferimento, un contesto protetto in cui sperimentarsi al di fuori della relazione con i genitori.
Il confronto con i pari è, dunque, fondamentale e fisiologico.
Quest’investimento crea una base sufficientemente sicura rispetto ai successivi compiti di sviluppo e svincolo dalla propria famiglia d’origine e ricerca d’identità.
Tutte le volte in cui ci troviamo di fronte a un ragazzo bloccato rispetto alla possibilità di avere accesso alla relazione con i coetanei, dobbiamo interrogarci e domandarci se questo blocco stia esprimendo una difficoltà della crescita e sia, magari, sintomatico.
Un esempio è quello del ritiro sociale, un fenomeno in cui il ragazzo smette di frequentare la scuola, lo sport, l’ambito della socialità per ritirarsi nella propria stanza.

Tornando al discorso bambini si sente dire: è un bambino timido.
In realtà non è sempre vero.


G. C. Esatto, non è sempre così.
Occorre andare ad esplorare la situazione in cui quella difficoltà emerge, osservare le caratteristiche personali del bambino, quelle famigliari, il contesto, il momento di vita che quest’ultimo sta attraversando e anche l’ambiente di vita esterno alla famiglia in cui sta crescendo.
Certamente può esserci un fattore individuale di timidezza, ma può anche trattarsi di insicurezza, o di un momento di disagio che può manifestarsi in determinati modi, come ritirarsi e non andare alla ricerca di relazioni.

Che differenza intercorre tra isolamento attivo e ritiro sociale?  Secondo quale meccanismo interagiscono tra loro?

M.O.
Sono due fenomeni diversi.
L’isolamento attivo è legato al momento storico che stiamo vivendo, una misura necessaria per evitare il diffondersi del contagio da virus Covid 19.
Quindi, stiamo parlando di una misura con ragioni specifiche che remano nella direzione della tutela della salute e hanno carattere temporaneo.
Il ritiro sociale è, invece, tutt’altra questione, nel senso che inquadra situazioni in cui un adolescente, volontariamente, si ritira dallo sguardo del mondo, rifugiandosi tra le mura della propria casa nei casi meno gravi, in quelli più gravi, addirittura, si ritira tra le pareti della propria cameretta.


Dott.ssa Marta Ostinelli

Come si manifesta il disagio?

M.O. Il ragazzo inizia a manifestarlo in modo graduale.
Ci sono segnali prodromici ad esempio fatica  nel recarsi a scuola, perdita d’interesse verso i propri hobby e sport, infine, si giunge a ritirarsi dalla dimensione sociale, come se ci si nascondesse allo sguardo degli altri, in particolare dei pari.
I due fenomeni in alcuni casi vanno a intersecarsi: la situazione pandemica attuale ha giocato, spesso,  come un fattore predisponente rispetto a situazioni di ritiro e abbandono scolastico, aumentandone presenza e complessità.

L’isolamento attivo, oltre al ritiro sociale, quali altre conseguenze può avere sulla psiche di un ragazzo?

M.O. Come abbiamo potuto constatare da ricerche eseguite  e da quanto ci dice la sorveglianza sul fenomeno, l’isolamento attivo impatta sulla vita di adolescenti e bambini sia riducendo il numero di esperienze nell’ambiente sociale con la conseguenza che viene a perdersi la parte esperienziale di conflitto e relazione, c’è una convivenza forzata, a volte, con i familiari che porta a tensioni, basta pensare al conflitto del genitore con il figlio adolescente, certo per staccarsi dalla famiglia d’origine occorre confliggere, ma essere presenti ventiquattro ore su ventiquattro può creare problematiche,  sia attraverso stati d’ansia legata al periodo d’incertezza oltre a episodi depressivi tanto nei bambini quanto negli adolescenti.
Esiste perciò una ricaduta dovuta all’isolamento attivo che, pur essendo necessario dal punto di vista della salute, può avere effetti negativi sulla nostre psiche.

G. C. Senza dubbio l’attuale pandemia ha avuto effetti sul benessere psichico dei nostri ragazzi.
Il rapporto tra Covid e ritiro sociale non è di causalità lineare, ma comunque vi può essere interazione.
L’isolamento resosi necessario come misura di sicurezza per contrastare il diffondersi del virus, legato a preoccupazioni dovute all’incertezza, può aver dato voce e reso manifesti segnali di disagio, magari, preesistenti, e che sono, ora, emersi.

In sostanza, le continue chiusure hanno portato alla luce forme di disagio preesistenti, ma poco ascoltate o, forse, non conosciute?

G.C. Lo stare chiusi in casa con le stesse persone, senza una vita sociale, senza una sperimentazione in altri contesti di vita non ha facilitato un momento di vita già di per sé delicato.
La mancanza di interazione ha generato, oltre ai problemi già citati, anche ripercussioni per esempio sull’apprendimento.

Dottoressa Giulia Cattarini

Relativamente al ritiro sociale, quali possono essere le cause?

G.C.
Come tutte le manifestazioni di sofferenza, il ritiro sociale è un fenomeno multi fattoriale per comprendere il quale serve avere una visione completa e complessiva delle molte variabili in gioco, tenendo conto dell’unicità di ogni storia di vita.
Esistono cause individuali legate alla traiettoria evolutiva e personale di ogni specifico ragazzo, fattori di natura familiare, legati a ciò che accade nel sistema familiara di ogni adolescente e cause sociali che si riferiscono, nello specifico, ai modelli promossi dalla società di appartenenza.
L’adolescente odierno, infatti, è inserito in una società competitiva, iper investito dalle aspettative dei genitori sin dalla tenera età, a volte, estremamente iper protetto da ogni possibile frustrazione o dolore, spesso, figlio unico in una famiglia molto affettiva e poco normativa può arrivare alla soglia dell’adolescenza con una visione di sé spesso grandiosa.
L’incontro con i compiti di sviluppo propri della sua età, con le richieste esterne di natura scolastica o prestazionale e con lo sguardo dei coetanei con cui si confronta quotidianamente può farlo sentire preda di una profonda vergogna e angoscia.
È su tale vissuto pervasivo che può iniziare a maturare ciò che poi diventa un vero e proprio ritiro sociale.
Ciò che accade in famiglia può aiutarci a fare luce sulla funzione del vissuto del ragazzo, che potrebbe trovare una spiegazione anche nel tentativo inconsapevole di presidiare la casa dalla torretta di sorveglianza della propria stanza per provare a confortare un genitore o risolvere un conflitto coniugale.
I nostri ragazzi sono molto bravi a respirare l’aria di casa.
Solo la possibilità di approcciarsi in modo professionale e con un’attitudine attiva all’ascolto della sofferenza consente di dare un significato al dolore dell’adolescente, di cui il ritiro sociale è espressione.

Il ritiro sociale, incide tanto sulla psiche quanto sul fisico…

M.O. Sì, nel senso che il ritiro sociale è un sintomo, quindi come tutti i sintomi è una sorta di medaglia a due facce.
Da una parte serve a qualcosa perché altrimenti non ci sarebbe, quest’ultimo ad esempio ha una funzione finalizzata alla sopravvivenza psichica dell’adolescente perché rappresenta una specie di fuga da quelli che sono i compiti evolutivi specifici di questa fase della vita, ma che sono soggettivamente percepiti come insormontabili.
Quando parlo dei compiti di sviluppo, parlo del compito di differenziazione, chiedersi chi si è, di separazione dai genitori, formazione del senso di appartenenza al gruppo dei pari, quindi anche la ricerca di autonomia, della propria identità e, non da ultimo, la fatica che, comunque, gli adolescenti fanno nel gestire le trasformazioni del proprio corpo e nel doverle integrare con quella che è l’immagine di sé.
Questa è la funzione che il ritiro sociale può avere.
L’adolescente rifugiandosi nella propria cameretta blocca la propria traiettoria di sviluppo e si pone in una sorta di limbo nella quale i compiti di sviluppo a cui accennavo prima sono messi in stand-bye.
Ci si arresta e conseguentemente bisogna cercare di riattivare gli ingranaggi che consentono di andare avanti e risolvere questi compiti in maniera positiva così che possano condurre l’adolescente all’età adulta.

Può essere, dunque, considerato uno strumento di difesa?

M.O.
Di difesa dalla sofferenza, sì.
L’adolescente arriva a ritirarsi perché è pervaso da un senso di vergogna, di quella che è la percezione soggettiva di essere incapace di portare a termine dei compiti che sono richiesti e trasmessi dalla società.
Si sente soggettivamente incapace, anche se lo sguardo di ritorno che proviene, ad esempio, dagli adulti è di competenza.
Di fatto, quindi, il ritiro sociale è un tentativo di difesa da vissuti che potrebbero essere gravosi per l’immagine di sé.

Questa pandemia sembra avere portato a un aumento dell’abbandono scolastico.
Cosa potete dirmi in merito?

M. O. L’abbandono scolastico, in realtà, in Italia, è una circostanza delicata e spinosa già da prima della situazione pandemica che stiamo vivendo dal 2020.
Negli ultimi anni, in Italia, il tasso di abbandono scolastico è tra i più alti nell’Unione Europea.
Siamo in presenza di una multi fattorialità di tale fenomeno e non possiamo ricondurre il tutto a ciò che è accaduto in questi due ultimi anni.
Vivendo nell’epoca della complessità, le spiegazioni devono essere complessificate;  tirando le somme  le cause possono essere svariate ad esempio di natura culturale, sociale ed economica.
Sicuramente gli adolescenti che provengono da un ambiente socialmente svantaggiato che, magari, rientrano in contesti economici a basso reddito o con un livello di istruzione minore possono avere maggiori probabilità di andare incontro alla dispersione scolastica e non portare a termine il ciclo di studi.
Non stiamo parlando di un rapporto lineare con quella che è la situazione pandemica che, però, ha favorito l’impennata dei casi di abbandono e dispersione.
Quest’ultima ha certamente fatto emergere un forte disagio tra giovani anche nei confronti dello studio e della scuola.
Metaforicamente, sia le misure che l’aumento abbandono scolastico sono dei catalizzatori, nel senso che rendono evidenti situazioni caratterizzate da fattori di rischio pregressi che sono state accelerate nella loro manifestazione.

Rispetto al ritiro sociale, come si può intervenire?

G.C. L’intervento sul ritiro sociale adolescenziale deve essere condotto da un’ équipe di professionisti formata e attenta rispetto al trattamento e alla cura del disagio in questa fase specifica di vita.
Fondazione Rosa dei Venti Onlus è una realtà presente sul territorio comasco che si occupa da più di  20 anni di adolescenti fragili e complessi e gestisce due comunità, una riabilitativa e una terapeutica, due centri diurni e tre residenziali.
La Fondazione ha messo in campo un sistema di cura specifico denominato ADTRI, Assistenza Domiciliare Territoriale Riabilitativa Integrata, che viene impiegato proprio in queste situazioni.
Si tratta nel concreto di progettare interventi socio educativi e riabilitativi da svolgersi da parte di un professionista opportunamente formato e supervisionato, direttamente a casa dell’adolescente autorecluso.
Si accompagna, progressivamente, il ragazzo a riprendere il filo di collegamento con l’esterno.
Durante queste fasi, il professionista, solitamente di formazione psicologica opera “stando con” l’adolescente e ponendosi come alleato rispetto all’attività da svolgere insieme in modo cooperativo, a partire dagli interessi specifici di ogni ragazzo.
Mi viene in mente,  per esempio, uno dei grandi nemici dei genitori ovvero l’utilizzo di internet che, spesso e volentieri, è usato dai ragazzi ritirati e che può essere visto dagli adulti come un cattivo segno.
In realtà, a livello prognostico risulta positivo soprattutto se tale strumento è utilizzato a livello relazionale. Video giochi e chat in cui possono parlare con altri ragazzini evidenziano il disperato tentativo di mantenere un contatto con l’esterno. Vi possono essere casi in cui l’uso non è relazionale, ma comunque aiuta a mantenere un legame con il mondo, come la ricerca di informazioni in rete. Di contro, giochi off line dove manca il rapportarsi o, addirittura, il mancato utilizzo di internet evidenziano casi più complessi, in cui si scompare non solo concretamente dal mondo ma anche virtualmente.
Partendo da interessi di questo genere il professionista instaura una relazione.
Il lavoro in équipe multi professionale favorisce la possibilità che l’adolescente mantenga una sorta di frequenza anche a distanza della scuola attraverso la costruzione di una rete con i docenti, strutturando passo dopo passo il recupero anche in quest’area, in modo da favorire un rientro in aula parziale.
I due centri diurni operano anche con lo scopo di giungere a un progressivo reinserimento sociale partendo da un ambiente protetto permettendo il confronto con altri ragazzi fragili con cui l’adolescente può condividere la fatica di crescere, esperienze laboratoriali, di cura di sé e di scoperta del proprio mondo interiore.

M.O. Nel corso degli anni  si sono contati diversi casi nei quali questa pratica di presa in carico del disagio giovanile si è dimostrata efficace e ha dato esiti positivi nei termini di una ripartenza rispetto al progetto di vita.
Prima facevo riferimento all’adolescenza in qualche modo bloccata perché i compiti di sviluppo vengono recepiti come insormontabili, quindi noi andiamo nella direzione di renderli soggettivamente meno insormontabili.
Siamo intervenuti, ad esempio,  incontrando più volte la settimana una ragazzina preadolescente ,  coinvolgendo anche i genitori con un percorso parallelo a sostegno della genitorialità.
Incontravamo questa giovane andando ovviamente là tra le pareti domestiche in cui si era rifugiata.
Il tentativo messo in campo era quello di creare con lei una relazione che fosse una sorta di  base per acquisire fiducia in se stessa e anche nel mondo al di fuori del suo palazzo.
Abbiamo collaborato anche con la sua scuola superiore favorendo il suo reinserimento progressivo e con una collega psicoterapeuta che aveva uno studio proprio nel suo territorio di appartenenza.
Abbiamo portato avanti un percorso domiciliare per portarla, infine, all’obiettivo di  accedere  ad un percorso di cura nella stanza di terapia.
Chiaramente tali passaggi sono stati possibili grazie alla mediazione di molti pomeriggi caratterizzati dallo stare insieme a lei guardando film, ripassando qualche materia scolastica e cercando di rispettare con delicatezza le sue emozioni.
Infine, si è passati a fare le prime titubanti uscite nel mondo esterno, inizialmente per prendere un gelato nella gelateria all’angolo di casa sua.

Spesso, il ritiro può compromettere l’igiene personale.
Entriamo nel merito di questo punto.

M.O.
Come abbiamo già detto, il ritiro ha dei segnali sintomatici suoi propri che possono essere fatiche nell’alimentazione, l’adolescente che diventa iper-fagico, cioè mangia tantissimo, oppure al contrario si saltano i pasti. Spesso sentiamo genitori che devono fare scivolare i piatti “sotto la porta della stanzetta” perché il ragazzo si rifiuta di uscire per mangiare, quindi, chiaramente, questo si lega a problemi di pulizia e igiene dell’ambiente, in quanto, in alcuni casi, si trovano piatti sporchi in camera e i genitori devono andare a riprenderli.
C’è certamente un’ alterazione dei ritmi del sonno, perché spesso l’adolescente sta sveglio di notte per giocare, appunto,  con i dispositivi online e a volte passa la giornata sotto le coperte, perché questo lo pone a confronto la sua adolescenza che percepisce come fallita a differenza dei coetanei che invece la stanno attraversando attivamente.
Per quanto riguarda l’igiene personale l’adolescente ritirato  trascura il proprio corpo che sta cambiando, stiamo parlando di un corpo di cui bisogna imparare a prendersi cura in modo nuovo.
L’igiene personale è uno dei temi che preoccupa molto i genitori, i quali vedono i loro figli trasandati, con la barba incolta, i capelli unti, le unghie lunghe e, spesso, con addosso gli stessi vestiti da molti giorni.
È un’immagine, oltre a quella della sofferenza del proprio figlio murato in cameretta,  che arriva molto allo sguardo del genitore e del professionista.
In questo caso ci siamo fatti promotori della possibilità da parte di questi adolescenti di imparare nuovamente come mettere al centro se stesso anche attraverso la propria cura del corpo: imparare a prendersi cura del proprio corpo è un passaggio terapeutico molto importante. Nel corso di interventi domiciliari, la cura del corpo è mediata dallo stare insieme, mettendoci lo smalto oppure imparando a prendersi cura del proprio corpo adolescente con maschere sul viso, scrub o trucchi – spesso si organizzano laboratori beauty.

A livello terapeutico sappiamo che esistono differenti approcci.
Anche nei casi di ritiro sociale quest’ultimo varia da soggetto a soggetto o uno è più funzionale dell’altro?

C.G. Penso che l’approccio vincente sia quello che mette al centro il ragazzo, la comprensione profonda di ciò che significa il malessere per quel ragazzo. Non esiste un orientamento giusto o uno sbagliato ma ci sono tanti orientamenti differenti che funzionano.
Ogni professionista indossa il suo paio di occhiali e possiede un particolare modo di osservare ciò che accade in base al suo orientamento, ma la cosa importante è lavorare con il paziente, un approccio perciò relazionale.

M.O. Aggiungerei che anche le ricerche dimostrano che ciò che rende una terapia vincente sono i fattori aspecifici, cioè l’empatia del professionista, la capacità (che è anche frutto di formazione e terapia personale) di stare accanto alla persona che in quel momento sta soffrendo.
Sicuramente, il fatto di avere orientamenti terapeutici differenti, ci aiuta ad integrare quelle che sono le osservazioni che vengono da formazioni diverse.
Il valore aggiunto di un équipe multi professionale è di poter prendere in carico non solo l’adolescente ma anche la sua famiglia.

A questo punto raccontiamo come si svolge il supporto e cura delle famiglie

G.C. Lavorare con le famiglie di un adolescente in ritiro sociale significa dare modo ai genitori di disporre di uno spazio in cui portare le loro fatiche in una dimensione di accoglienza e totale assenza di giudizio. Significa aiutarli a tradurre in parole le loro emozioni cercando insieme al professionista delle ipotesi che possano rendere comprensibile il grande malessere del figlio, costruendo insieme strategie relazionali e comunicative che rendano possibile in termini metaforici riprendere in mano le chiavi della cameretta del  figlio, creando condizioni senza strappi e in sinergia con il lavoro psico – educativo che si svolge in parallelo con il ragazzo affinché si possa aprire uno spiraglio verso l’esterno.

Rispetto a una proposta di presa in carico familiare quali sono le reazioni dei genitori?

M. O. Anche qui, dipende da caso a caso.
Lo sguardo con cui noi guardiamo i genitori è lo sguardo per cui li vediamo come  dei possibili alleati per la cura del loro figlio adolescente.
Il professionista  incontra il ragazzo una volta la settimana e i genitori vivono con lui .
L’idea di poter dare loro dei validi strumenti di lavoro per poter interpretare anche cose che accadono è, di solito, accolta favorevolmente, tenendo anche conto che questi  ultimi si trovano in una forma di profondo smarrimento perché non sanno cosa determina ciò e il ragazzo, a volte, è ritirato dalla comunicazione, non parla e non spiega.
Tendenzialmente possiamo dire che c’è una buona collaborazione tra le parti.

In ultimo, intervenite anche a livello farmacologico?

G.C. La somministrazione di farmaci è da verificare caso per caso.
Parlando di équipe multi professionale sicuramente può intervenire anche la figura del neuropsichiatra che, in casi specifici, può recarsi al domicilio del ragazzo per una consultazione e per capire se può esserci bisogno di un farmaco oppure no.
Non si può dire a priori se serve un trattamento farmacologico, ma sicuramente lo psichiatra è una figura che fa parte dell’équipe e al bisogno si può ricorrere ai farmaci, stando attento alla delicatezza della fase di sviluppo: gli adolescenti sono giovani e l’uso di farmaci è consigliabile avvenga per un breve periodo di tempo e nella fase più acuta per poi gradualmente ridurlo ed interromperne la somministrazione. A volte, è una fase necessaria per favorire tutto ciò di cui abbiamo parlato poc’anzi.

M.O. Tra l’altro, parte dei ragazzi che giungono a noi sono in carico ai servizi territorialmente competenti, questo significa che la rete è stata attivata da questi ultimi e, di conseguenza, sono ragazzi che già militano nelle neuropsichiatrie infantili dei loro territori.
Quindi, magari, in questi casi, la parte farmacologica è gestita direttamente dal servizio di neuropsichiatria infantile, mentre noi ci concentriamo sul lavoro psico – educativo con l’adolescente e terapeutico con la famiglia.

Mara Cozzoli

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