Cromatismo e poesia. Intervista a Andrea Grieco.
Filmaker, autore, docente, intellettuale e artista… una figura poliedrica, quella di Andrea Grieco, che si distingue, nel panorama artistico, per eclettismo e provocazione.
Nei suoi artworks, compone la verità della relatività; con le proprie lame, infatti, ricava nuovi lembi, da precedenti letti esperienziali, e li ammanta nella “sensatezza” di uno sguardo alternativo.
C’ è una domanda che amo porre e, forse, rende un artista differente dall’altro: come nasce e si sviluppa il processo creativo?
Per me negli occhi innanzitutto. Un po’ come per la speculazione filosofica medioevale sull’amore, che dal De Amore di Andrea Cappellano agli autori stilnovisti sosteneva che la passione, quella bruciante, quella che devasta, deve passare per il canale visivo, dopodiché gli occhi possono chiudersi e il cuore continua a dare al sentimento “nutricamento”. Il gesto creativo in sé, poi, deve sottostare alla disponibilità dei materiali, che nel caso dei miei collage, significa trovare quegli elementi che si confanno all’idea che sia ha e ciò, cosa ancora più difficile, significa che tali laceri di carta o altri materiali collimino per colore, grandezza e orientamento spaziale, cosa che non è per niente semplice o scontata. A volte, però, questa ricerca e attesa riserva sorprese, e caso e intuito possono far prendere all’immagine di partenza tutt’altra forma e direzione; succede e non è poco emozionante o sorprendente.
Cinematografia, musica e letteratura costituiscono le fondamenta del tuo lavoro. Quali sono state le differenti fasi evolutive, tanto personali quanto professionali, che ti hanno condotto a una tale scelta?
Difficile davvero definire un orientamento logico e cronologico al proprio percorso, come voler dare un senso alla vita. Di sicuro deve esserci stato un momento sostanziale che ha prodotto l’accensione all’attitudine espressiva. Potrei ricordare mio padre seduto per ore a disegnare, l’infanzia trascorsa ad ascoltare vinili per giorni interi per compensare la solitudine, come le ore trascorse davanti al televisore a consumare indiscriminatamente immagini e una sala cinematografica quasi sotto casa in cui mi rifugiavo quotidianamente e poi l’avvento dei registratori e dell’home video che offriva la possibilità di recuperare visioni incredibili e inconfessabili. Successivamente gli studi di letteratura, cinema e teatro; l’attività di videomaker, quella di critico, autore e scrittore per testate cartacee e telematiche, la produzione di tre testate di fumetti e arte, Nervi, Antropoide e Medicine Magazine, che si sono create una loro aurea cult e maudit e che hanno per prima in Italia ospitato tanti autori ora famosissimi. Tutte queste cose si influenzano, alimentano e riflettono vicendevolmente per dare ora forma ai miei collage.
Cromatismo e poesia si fondono, delicatamente, tra loro, giungendo, in tal modo, a ciò che per te rappresenta il senso estetico.
Quale meccanismo scatta nell’osservatore attraverso il colore?
Uno degli obiettivi che mi prefiggo di raggiungere nelle mie opere è un connubio e un equilibrio tra l’orrore e la bellezza, il ripudio e l’attrazione, e quindi anche un accostamento cromatico che sia in grado di ingenerare ossimoriche alchimie semantiche. Di solito il rosa o le tonalità pastello vengono associate al lezioso e al delicato, ma io ne faccio un uso tale da farne veicolo di repellenza; viceversa, i toni accesi li smorzo cosicché invece di aggressione visiva aiutano a sfumare la violenza della scena rappresentata. Ma soprattutto amo usare carte usurate dal tempo e attaccate dagli agenti batterici, che conferiscono colori e testure uniche e irripetibili che cerco di armonizzare con l’immagine che vado a creare.
Prendiamo il trittico “Let’s Dance”: tecnicamente, come sei riuscito a calibrare toni e posture, permettendo loro di intersecarsi e creare così una magica danza a due, liberata “in 3 movimenti”?
Per parlare di Let’s Dance (titolo che ho scelto solo alla fine di questo mini ciclo e che omaggia uno dei miei innumerevoli idoli, David Bowie) è necessario aprire una parentesi che mi permette di definire il percorso che mi ha portato alla loro realizzazione mediante una particolare tecnica. Si è prospettata per me, se tutto andrà bene, la possibilità di fare una mostra a Praga quest’anno e condizione postami è stata quella di fare un riferimento alla storia o alla cultura del luogo. Così ho subito pensato di omaggiare Jiri Kolar, grande poeta e artista collagista e avanguardista ceco inviso a tutti i regimi. Quindi, ho adottato una sua tecnica specifica, che consiste nel ritagliare e sovrapporre immagini, applicandola a foto dei gerarchi ed esponenti di alcuni totalitarismi nel tentativo di comunicare uno svuotamento di senso di tali personaggi e sottolinearne la scempiaggine. Mentre lavoravo a questo progetto mi sono ritrovato tra le mani un bellissimo catalogo di foto dei componenti del Balletto russo e la prima cosa che mi è venuta in mente di fare è stata quella di applicare la stessa tecnica ai ballerini, ma questa volta con l’intento di donare alle loro movenze acrobatiche e sinuose ulteriore grazia e stile. Se mi dici che ciò che ti trasmette Let’s dance è questo vuol dire che almeno in parte debbo essere riuscito nell’intento.
Le immagini stesse donano al corpo un movimento armonico, nel quale è evidente la perfetta coordinazione tra quest’ultimo e la componente emotiva.
Una fisicità, dunque, alacre, estremamente fine e melodiosa… tu, invece, come la definiresti?
Sempre e comunque conturbante. Il corpo è il più grande portatore di valori semantici e tra questi i più potenti sono di natura sensuale. Le forme e i colori della pelle sono così potenti da risultare destabilizzanti e finanche eccitanti anche se riprodotti attraverso qualunque mezzo di riproduzione. Quasi un’ovvietà, di certo non una trascurabile constatazione.
Passiamo a “Lilith”, una donna detentrice di virtù, perturbante, sensuale nella sua fierezza, ma che
sembra lanciare un monito: “Fate attenzione”. Racconta la tua “Lilith”.
Non so se è un caso, ma il mio primo romanzo analogico s’intitola State lontani, che non è poi molto diverso dal “fate attenzione” che tu ravvedi in Lilith; in un certo qual modo io invito sempre, come un avvertimento o un moto di ritrazione e difesa, di rimanere alla larga da quello che concepisco. Proprio perché la bellezza diventa pericolosa e l’orrore attrattivo. Un atteggiamento che si riproduce in chiunque di fronte a un film horror o a un incidente stradale; sappiamo istintivamente che lì c’è qualcosa di tremendo e pericoloso che ci attende e minaccia, ma non possiamo fare a meno di andargli incontro. Io stesso ho un certo timore quando mi compaiono nella testa delle immagini, ma mentre prendono forma imparo a familiarizzare con esse e ne avverto soltanto il fascino. Lilith è una delle mie più delicate e insieme perturbanti opere e avendola creata ne sono geloso, come fossi il suo Pigmalione.
Infine, partendo da entrambe queste opere, il cui oggetto è il corpo umano con la propria nudità, ti chiedo: cosa simboleggia per te il connubio di questi elementi?
Ho già accennato al fatto che trovo il corpo il centro nevralgico del mio lavoro, d’altra parte sono un accanito sostenitore del cinema cronenberghiano e il regista canadese sostiene che il cinema esiste per dare visione al corpo; io potrei parafrasare dicendo che il corpo è sempre stato spettacolo, oggetto da mostrare, nudo innanzitutto.
Ditemi se è possibile trovare un soggetto capace di instillare in noi tante emozioni e sensazioni forti e contrastanti quanto la vista e il contatto delle forme anatomiche e della pelle. Se questo qualcosa esistesse avremmo avuto un’altra storie dell’arte.
Annunciamo che il 28 maggio 2022, alle ore 17.00, si inaugura presso BM Art Gallery, Corso Cavour 176, nella
città di Orvieto, il vernissage della mostra personale “LIMBICA”, di Andrea Grieco.
Termine mostra 5 giugno 2022.
A cura di Maria Marchese e Olivia Bracci
Tra i media partners Milano Più Sociale.