Giro D’Italia delle cure palliative pediatriche. Intervista a Francesco Iandola direttore esecutivo Fondazione De Marchi.
In Italia, dei 35.000 minori con diagnosi di inguaribilità, solo il 5% usufruisce del diritto che la legge riconosce loro di ricevere cure palliative.
Per promuovere la conoscenza delle Cure Palliative Pediatriche tra la cittadinanza e sensibilizzare i professionisti sociosanitari e le istituzioni sulla necessità di sviluppare le reti di cure palliative pediatriche in tutte le regioni italiane, Fondazione De Marchi Onlus e Vidas hanno aderito all’iniziativa solidale Giro d’Italia delle Cure Palliative Pediatriche, promossa da Fondazione Maruzza, in collaborazione con circa cinquanta tra enti e associazioni.
In occasione della prima tappa, partita a Milano lo scorso 22 maggio, torno, oggi, a dialogare con Francesco Iandola, direttore esecutivo di Fondazione De Marchi.
I dati sono sconcertanti e il divario dovrebbe farci riflettere: 35.000 minori bisognosi di cure palliative e solo il 5% riesce ad accedere alle cure palliative. Per quale motivo, secondo lei?
Da una parte, forse, in molte regioni, l’attenzione da parte della sanità pubblica al problema è ancora scarsa, dall’altra c’è poca conoscenza da parte delle famiglie che hanno figli che necessitano di cure e della conseguente possibilità di accedervi.
In sintesi: è un mix tra offerta e conoscenza. In Lombardia, specialmente a Milano, siamo fortunati in quanto riusciamo a coprire le esigenze della popolazione, in altre regioni è più complicato.
Quindi, mi sta dicendo che uno dei problemi è la mancanza di risorse?
Mancanza di risorse e di cultura.
Per molti anni si è stati poco diligenti al dolore che potrebbe provare un bambino.
Una volta, addirittura, si diceva che i bambini nei primi mesi e nei primi anni, non sentivano dolore: solo adesso sta nascendo, veramente, una cultura del rispetto del bimbo anche da questo punto di vista.
Come imposta Fondazione De Marchi questo percorso curativo?
Come Fondazione siamo attivi da tanti anni all’interno della clinica pediatrica De Marchi che è nata nel 1915 per volontà di Luigi Mangiagalli di creare un’eccellenza a Milano. Proprio per garantire questa eccellenza, affianchiamo la sanità pubblica per offrire le migliori cure e la migliore qualità di vita.
Quindi, da una parte ci occupiamo della cura del bambino tramite borse di studio al fine di aumentare il numero di medici disponibili in reparto, acquisto di attrezzature scientifiche e formazione, tutto ciò che, dunque, può essere utile per migliorare le prestazioni ma siamo, inoltre, attenti a garantire, da sempre, la miglior qualità di vita a questi bambini attraverso gioco, arte terapia, supporto psicologico, per therapy e li portiamo in vacanza.
In questi ultimi anni abbiamo sentito l’esigenza di fare sempre di più e dato vita a un progetto che abbiamo chiamato “Un ospedale mica male” con cui volgiamo rendere più organiche e strutturate queste attenzioni che possono portare a migliorare la qualità della vita.
Nel corso del tempo siamo riusciti ad ottenere dall’Idroscalo uno spazio in cui possiamo portare i bambini a giocare con i cani o fare altri giochi. Supportiamo, inoltre, l’ambulatorio integrato di medicina del dolore pediatrico, una struttura (credo la prima nata a Milano ) che si prende cura pediatra,dei dolori cronici dei piccoli che non devono essere per forza terminali anzi, sono bambini che, purtroppo, per tutta la vita dovranno portare avanti questi dolori dovuti a particolari patologie.
In Clinica De Marchi è, dunque, attivo questo ambulatorio nel quale è presente un équipe composta da differenti specialisti: medico anestesista, fisioterapista, psicologa, cani della SICS, abbiamo, infatti, dato vita a una partnership con la Scuola Italiana Cani Salvataggio, ovvero quei bellissimi labrador che vediamo in spiaggia per sorvegliare i bagnanti, ma che, nelle altre stagioni, vengono da noi per regalare momenti di gioia ai bambini.
Per quanto riguarda la fase terminale, Fondazione De Marchi, come agisce sul bambino, come lo segue?
Noi stiamo sempre accanto alle famiglie, da una parte le appoggiamo, costantemente, a livello psicologico, dall’altra stiamo vicini al bambino garantendo al Policlinico tutti gli strumenti affinché i medici possano operare al meglio.
Si sono, inoltre, create reti territoriali, come quella con la Vidas che, in quanto specializzata in questo, ha dato vita a una vera e propria Casa pronta a seguirli.
Rispetto al suo lavoro, lei guarda in faccia il dolore praticamente tutti i giorni. Quello che le chiedo è di natura personale: cosa legge negli occhi di questi bambini e dei loro genitori?
Guardi, io leggo negli occhi e sento, purtroppo.
Ascoltare dalla finestra il pianto di un bambino trasmette quella volontà di fare sempre di più per evitare questi attimi.
Nel genitore vedo il senso d’impotenza e la trasmissione del dolore derivante da quest’ultima al bambino, tramite gli occhi.
Occorre evidenziare che quando il bambino guarda il genitore, i suoi sentimenti entrano in relazione con quello della mamma o del papà: se il genitore ha paura o piange, il bambino amplifica le sue emozioni negative.
Bisogna, percui, incoraggiare il genitore ad essere forte perché tale forza venga trasmessa al figlio.
Invece, lei, in prima persona come riesce a gestire le emozioni?
In prima persona è una grande sofferenza, si vorrebbe non poter sentire e guardare dall’altra parte ma questo è il nostro lavoro e, allora, si cerca di trovare il modo di fare sempre di più, ci si informa, ci si confronta con i medici per cercare di capire ciò che noi possiamo fare per regalare un sorriso.
Prima o poi, lei deve relazionarsi con essi.. come riesce a portare una sorta di maschera rispetto alla sofferenza?
In realtà, io lavoro dietro le quinte, io metto i medici nella condizione di relazionarsi al meglio con il bambino.
I miei sono incontri casuali, però ci metto il sorriso. Come dicevo prima, il bambino coglie e amplifica le emozioni degli adulti e del mondo che gli sta intorno, di conseguenza, innanzi al bambino bisogna fare sparire la preoccupazione, la paura e il dolore. Quanto si cerca fare è regalare lo scherzo o la battuta.
Ai nostri volontari abbiamo fatto fare un corso di magia.
Personalmente, quando vedo un bambino piangere, faccio il giochino di fare scomparire e ricomparire la pallina dentro la mano, il bambino, per un istante interrompe il pianto e, allora, anche per me è una gioia.
Entriamo nel merito del “ Giro d’Italia delle cure palliative ”, al fine di spiegarlo al meglio.
L’idea nasce da un gruppo di centonovanta professionisti coordinati da Fondazione Maruzza che si occupa, nello specifico, di terapie- palliative pediatriche.
Scopo primario è sensibilizzare popolazione e istituzioni circa l’argomento.
È stato creato un manifesto che si può sottoscrivere visitando, appunto, il sito di Fondazione Maruzza, per incentivare Stato e Regioni a fare sempre di più per le cure palliative pediatriche.
Questo giro si svolge a tappe e passa per tutta l’Italia.
A Milano, Fondazione De Marchi, ha avuto l’onore di organizzare la prima tappa coinvolgendo tutte le famiglie.
Così, lo scorso 22 maggio all’Idroscalo abbiamo fatto tutti quanti il giro in bicicletta con la maglia rosa e, al termine, un pic- nic gioioso.
Erano, inoltre, presenti i cani SICS, i super eroi e un gruppo di TICK-TOCKER, è stato, insomma un momento di allegria per giungere, così, alla sensibilizzazione.
Infine, sono state messe a disposizione biciclette per i disabili in modo da non escludere nessuno.
A mio parere, nel complesso, l’iniziativa tratta un tema forte e importante, ma attraverso la leggerezza, la spensieratezza, senza generare paure o timori, senza, soprattutto, speculare sul dolore, direi che questo è un valore aggiunto, un punto di forza.
Infatti abbiamo deciso che il nostro messaggio doveva arrivare in modo spensierato, leggero.
In tutto ciò che facciamo non mettiamo mai il dolore davanti, non usiamo mai il dolore per attirare il pubblico o l’attenzione.
Non inventeremmo mai uno spot con un bambino che sta male, noi siamo lì per curarlo e regalargli un sorriso, non usiamo il dolore per portare persone.
La nostra missione è portare gioia, in ospedale e fuori.
Ritengo sia contro etica giocare con il dolore di un minore, fare informazione sì, ma entro certi limiti.
Esatto, in nessuno modo il dolore va strumentalizzato e utilizzato.
La privacy del bambino va sempre al primo posto, va difesa.
Certo, il dolore è un ottimo strumento per sensibilizzare, però, ci vorrebbero la capacità e l’intelligenza di utilizzare altri strumenti, magari più difficili, che ci sono, ma senza dover ricorrere all’immagine di un bambino per qualunque motivo sofferente.
Secondo lei, noi organi di stampa, a livello di informazione cosa dobbiamo fare?
Sicuramente, amplificare e dare spazio a questi temi che sono importanti, raccontare le difficoltà che possono incontrare le famiglie nel trovare le strutture adatte e, quando ci sono, fare il possibile per portare a conoscenza le famiglie di queste opportunità di placare la sofferenza del bambino, perché, poi, questa sofferenza si ripercuote su tutta la famiglia.
Il discorso sulle strutture adatte possiamo già affrontarlo adesso.
Certamente, a Milano e in Lombardia ce ne sono parecchie. Come le dicevo in precedenza, noi abbiamo l’ambulatorio integrato, poi c’è la CASA Sollievo di Vidas che è operativa sui casi di fine vita, ma non solo.
Nel resto della regione ci sono Bergamo, Brescia, Como, Lecco e Varese.
Da noi si possono trovare con estrema facilità, in Lombardia siamo ben strutturati.
Dato che lei è del settore, qual è la situazione nel resto d’Italia?
Studiando ho visto che è sicuramente peggiore, soprattutto se calcoliamo che su 35.000 bambini che necessitano di cure solo il 5% può accedervi.
È un problema Nazionale, direi, in quanto le altre regioni non sono sufficientemente attrezzate.
Non so dirle regione per regione, però è evidente che al di fuori della Lombardia la situazione è estremamente difficile.
A me viene da pensare che le famiglie, per accedere a queste cure debbano venire spostate in Lombardia e di conseguenza il supporto diverrebbe diverso, anche perché si tratterebbe di ospitare le famiglie. È così?
Sì.
C’è da dire che ogni famiglia è un caso a parte e che, comunque, il nucleo familiare necessita anche di sostegno da parte di tutta la famiglia allargata, quindi per un bambino malato allontanarsi dal suo ambito familiare, regionale, territoriale è difficoltoso, in primis perché servono risorse economiche e poi, naturalmente, serve l’aiuto di nonni zii e parenti che possano alternarsi nella cura al piccolo.
Questo salto è veramente complicato.
Precedente Intervista a Francesco Iandola.
https://www.milanopiusociale.it/2021/11/19/pediatria-progetto-pedrito-e-umanizzazione-delle-cure-intervista-a-francesco-iandola-direttore-esecutivo-fondazione-de-marchi/