Tra passato e presente: come la ‘Ndrangheta nutre bambini. Intervista a Luigi Bonaventura.
Le mafie proliferano dove regna fragilità politica, economica e culturale, generando, in tal modo, degrado sociale.
I primi ad essere colpiti da questo circolo vizioso sono i bambini, a cui, inevitabilmente, viene negato un avvenire fatto di serenità, stabilità ed equilibrio.
“La loro situazione è paragonabile a quella di prigionieri di guerra che non godono nemmeno dei protocolli di salvaguardia spettanti, per l’appunto ai prigionieri. Sono bambini soldato tolti da un campo di battaglia e portati in un altro, ovvero il programma di protezione. Sono minori che combattono per la loro sopravvivenza fisica, mentale e sociale“ mi spiega Luigi Bonaventura, ex affiliato alla ‘Ndrangheta crotonese e collaboratore di giustizia dal 2006.
Parlare di sé, del proprio trascorso è difficile: dietro vi sono, infatti, traumi che necessitano rispetto. Nonostante ciò, il mio interlocutore non si tira indietro “Ho visto armi fin da quando ero piccolissimo, a 10 anni ho sparato la prima volta, in aria. In quest’occasione mi sono slogato il pollice, un episodio sul quale i miei pensieri sono sempre stati focalizzati“.
Inizia, così, una lunga chiacchierata.
Quella mafiosa è una sotto cultura tramandata di padre in figlio che, se un tempo portava le armi in mano le armi ai bambini, ora, da questo punto di vista, ha subito mutazioni.
Esattamente, oggi, conduce alla via del crimine; questa precisazione è importante perché io sono nato nel 1971, un’ epoca differente da quella attuale, in cui tutti sparavano su tutti, avevamo le BR, Cosa Nostra, Camorra e abbiamo vissuto attentati contro le Istituzioni, la morte di Aldo Moro, gli attacchi feroci scatenati dalla Cosa Nostra di Riina verso lo Stato.
In questo lasso temporale la ‘Ndrangheta utilizzava la parola faida, ovvero guerra fino alla morte dell’ultimo figlio maschio di una delle due famiglie in lotta.
Io, come già detto, arrivo da una famiglia ‘ndranghetista e nascere con quel tipo di educazione era dura, a ciò si aggiunse un contenzioso acceso con un’altra famiglia.
All’età di un anno e tre mesi, subentrò un’altra famiglia rivale, la quale uccise un mio zio di ventun anni. Tutto ciò sfociò in una seconda faida.
Trovarsi in queste condizioni per un bambino, naturalmente, significava non solo essere pronto all’uso delle armi, ma venire istigato all’odio e alla vendetta.
La parola d’ordine era una: ammazzare.
Ho fatto un distinguo tra armi e crimine proprio perché vi è stata un’evoluzione delle mafie che, sicuramente, anche oggi insegnano ai bambini a sparare, ma con minore intensità rispetto al passato: prima servivano killer, adesso servono broker, narcotrafficanti, economisti.
In funzione del livello sociale in cui nell’Onorata Società ci si viene a trovare, i figli vengono addestrati a determinati crimini, da quelli classici che tutti conosciamo a quelli, invece, di menti raffinatissime, parliamo in quest’ultima circostanza di economia, finanza etc..
Questa trasmissione culturale e criminale di padre in figlio è tutt’ora molto forte.
Quanto stai dicendo è estremamente importante: hai evidenziato un fattore che è sotto gli occhi di tutti, anche se si fatica a vedere e ammettere, forse, perché tali meccanismi sono impossibili da digerire: la mafia si evolve con l’evolversi della società.
In sintesi, non si spara più ma si cerca altro.
Per quanto definiamo la mafia una sotto cultura o sub cultura o cancro, il senso è sempre lo stesso.
Usufruiamo di dette diciture per diversi motivi: essa è caratterizzata da vecchi codici cavallereschi, arcaici, inoltre, non è più una cultura appartenente a chi si definisce membro di una società civile, la società cioè di coloro che corrono verso l’emancipazione.
Gli appartenenti a un qualunque tipo di mafia, non arrivano a circoscriversi come sotto cultura, bensì considerano noi comuni cittadini che seguiamo le regole una sotto cultura; la loro evoluzione non ci dice niente di nuovo perché esse hanno sempre cambiato pelle, è una conseguenza quasi fisiologica, naturale.
Non riusciamo a sottolineare le mutazioni perché giochiamo a rincorrere: deve esserci un morto sulla strada, il sangue.. per poi intervenire, allo stesso tempo concediamo troppo tempo alle mafie per potersi evolvere.
La verità è che noi non dovremmo dargli respiro, in più parte di colpa è attribuibile all’anti mafia sociale che, in questi lunghi anni, ha raccontato il fenomeno in modo statico e anche superato, dunque, quando ci si affaccia alla finestra ( soprattutto al Nord) e non si vedono magistrati saltati in aria, poliziotti morti o gente che si ammazza tra di loro vi è la tendenza a dire che la mafia non esiste o, in ogni caso, se esiste non sta uccidendo e, di conseguenza, non fa male.
La società è impaurita dalla violenza fisica, quella che in sangue e sono proprio questi elementi a creare indignazione, mentre non riusciamo ad avere lo stesso terrore ( perché nessuno l’ha spiegato a dovere) del rischio che corrono valori come la democrazia, la libertà, il commercio, la meritocrazia, l’economia e quant’altro.
Cosa ci stanno dicendo questi mutamenti?
Vi è un’evoluzione particolare, un unicum nel genere delle mafie, specie quelle autoctone.
Ci sono stati tanti cambiamenti di pelle, ma uno stop alle armi così forte non lo abbiamo mai visto e questo ne dimostra la potenza: ci stanno dando una lezione di comportamento, anche perché le mafie si nutrono di consensi e noi che ci occupiamo di anti mafia dobbiamo riconoscerlo. In realtà noi siamo solo una piccola nicchia che si scontra con centinaia e migliaia di soggetti di cui, rispetto al tema, alcuni sono indifferenti, mentre altri compiacenti, lo sono per esempio gli assuntori di cocaina, marjuana, coloro che sono affascinati dal crimine e, innfine, tutti quelli che cercano giustizia ma vedono che quest’ultima è lenta.
Tradotto: la ‘Ndrangheta è amatissima.
Per tanto tempo abbiamo parlato di colonizzazioni, infiltrazioni, ma il cerchio si chiude con il radicamento.
Le conclusioni a cui siamo giunti sono che la ‘Ndrangheta è presente in ogni Regione, sino a giungere all’integrazione che conduce poi a una simbiosi tra società civile e onorata società.
Il mondo dell’economia legale e di quella sommersa si sono fuse, facendo sì che l’una dipende dall’altra.
Specificato questo, torniamo all’oggetto della nostra intervista. Qual è il percorso di crescita di coloro che definisci “bambini soldato“?
Il precorso di crescita di questi bambini, principalmente, è evidenziato dall’indottrinamento: far acquisire loro il senso dell’onore, che specifico è un falso onore, falsi miti accompagnati dal terrore di non essere degni del compito, della famiglia e dell’appartenenza alle cosche.
Molti di essi, subiscono una duplice: violenza fisica e psicologica, a prescindere dal fatto che sia diretta o indiretta.
Quando le forze dell’ordine entrano nelle case e nessuno sta attribuendo responsabilità alle forze di polizia, per un minore vedere perquisizioni, portare via un padre, una madre o un fratello è una violenza che rimane per sempre: nel mio percorso le ho subite entrambe e quella fisica è stata di grande barbarie, ribadisco, comunque, che non è lo stato attuale della situazione, perché parliamo, appunto, di epoche più crude.
In ogni caso, credo che la sostanza non sia cambiata di molto.
Leggendo molte tue interviste, ho avuto modo di apprendere di una sorta di iniziazione a prendere dimestichezza con la morte. Hai voglia di parlarne?
Sì,anzi, il termine esatto è educazione ‘ndranghetistica.
Sono dei modus di insegnamento che si tramandano da epoche antichissime, quindi l’educatore (genitore o zio) trasmette quanto a lui è stato impartito che però, in realtà, probabilmente, alcuni criteri adottati nell’addestramento sfuggono anche a loro per una logica precisa.
In questo percorso, il bambino è veicolato a prendere dimestichezza con il sangue e la morte. Io sono stato portato, spesso, nei macelli al fine di vedere con i miei occhi come si uccidono gli animali, mi facevano assaggiare sangue o carne cruda, oppure mi portavano in magazzini dove determinati animali, soprattutto i cani, venivano preparati alla guardia e all’attacco, cani che venivano incappucciati, picchiati e serviti con carne cruda.
Tutto ciò comporta dei traumi psicologici non indifferenti.
Sì, dal punto di vista psicologico sono terribili.
La violenza fisica, a volte, poteva essere praticata con la classica cintura che era un modus operandis frequente anche in altre famiglie, ma addirittura, nel mio caso è stato utilizzato un nervo, un attrezzo creato per picchiare le mandrie, esso derivava dal pelo del toro, diventava un bastone flessibile e appena mi colpiva, trasmetteva al dolore una crescita costante, lasciando, inevitabilmente, segni.
Questa è la conseguenza della violenza che mio padre, precedentemente, ha subito e che era ancora peggiore. Ha trovato un significato, ovvero quello di farmi abituare al dolore, così se, per caso, mi avessero catturato e torturato, io non avrei ceduto.
Loro insegnavano quanti pugni sferrare, dove sferrarli e preparavano al modo in cui ammazzare e come difendersi.
La testa diventava una specie di computer, si simulava più e più volte per giungere preparati all’istante in cui tutto sarebbe accaduto.
Ed effettivamente ci si trovava a compiere ciò che per decine e decine di volte si aveva simulato.
Tante prove sono fatte per temprarti, come l’allontanamento dalla famiglia, cioè il figlio veniva mandato in un’altra regione, all’epoca si parlava di infiltrazione, io ad esempio mi infiltravo nei costumi sociali, negli usi…la mafia studia, non entra con il caterpillar, anche se vuolendo può farlo..
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Il tuo addestramento è cambiato intorno ai quattordici anni, circa..
Sì, era diventato più serio. Mi portarono in luoghi frastagliati come la costa, nei boschi o in capannoni abbandonati.
Avevo imparato ad utilizzare svariati tipi di armi. L’obiettivo, si chiamava bersaglio…sparavo contro una bottiglia o una sagoma fatta di cartone.
Mi abituarono che quello era solo un bersaglio e, alla fine dei conti, quando nella realtà ti trovi a sparare, lo fai nell’ottica che quello è un bersaglio.
La particolarità è che avevano omesso di dirmi e, questo lo compresi nella pratica, che si eseguiva tutto come fosse un copione.
C’è dietro manipolazione psicologia…
Esatto e mi accorsi che la mia anima era morta, nera.. se ammazzi una persona muore una parte di te. Io mi sono trovato in contesti di guerra, loro erano innocenti quanto me, nessuno merita di morire… vi erano caduti da ambo le parti.
Alla fine ho compreso che il morto in terra era l’altro me… metaforicamente, avevamo le divise di un altro colore. Tra di noi, ci definiamo fratelli di sventura, anche se siamo collaboratori… mio figlio è un fratello di sventura.
Non hai la cognizione di quanto è giusto o sbagliato, anzi, per essere precisi, la tua visione è falsata. Loro ti inculcano nella testa che tu sei nel giusto, sei il buono, stai combattendo un’ingiustizia e io non ho mai pensato di essere cattivo: Era lo Stato il cattivo che commetteva ingiustizie.
A tredici, quattordici anni ho compreso che le armi che usavo erano le stesse che usavano gli altri bambini, con la differenza che le mie erano vere.
Con il tempo, sono entrato in conflitto con me stesso, inizialmente non si vedeva, poi piano piano è cresciuto. Io ho avuto la fortuna che mia madre non apparteneva a nessuna famiglia criminale, mio padre si è sposato per amore, non per matrimonio combinato, lei era ed tutt’ora una donna straordinaria, ha subito violenze, si è ribellata cercando di educarmi con la sua famiglia.
Tutto ciò che lei seminava in un terreno contaminato dal parentado paterno, non germogliava, però nel mio racconto, all’apparenza romanzato, ritengo che in questa terra sterile, qualcosa è rimasto vivo.
Inseguito, è arrivata mia moglie, i miei figli, una famiglia, dunque, ed è stata mia moglie a gettare l’acqua necessaria a far germogliare quei semi.
Mia madre ha inciso tantissimo nel mio conflitto.
Parliamo della particolarità dell’indottrinamento.
Ero così indottrinato, che avevo paura ad ammettere i miei conflitti, a esporli a me stesso.. sembrava pazzia o paranoia, se non lo erano si avvicinavano ma, davvero, avevo paura a fare certi pensieri perché temevo qualcuno li potesse udire, mi vergognavo perché credevo di essere debole e la ‘Ndrangheta non ammette debolezze, per l’organizzazione l’uomo deve essere duro, può spezzarsi ma non piegarsi.
Ero terrorizzato dal fatto che l’altro potesse accedere ai miei pensieri, mi guardavo intorno perché temevo che qualcuno potesse ascoltare le mie perplessità.
In questo percorso, ho accettato e fatto, ma dietro la mia accettazione c’erano due punti fermi, il primo era: mai sposarmi e avere figli, perché mi domandavo che vita avessero avuto.
Alla fine, mi sono sposato e ho avuto due figli e non mi sono pentito di questo.
Il secondo punto rientrava in un doppio binario: mio padre non doveva più permettersi di toccare mia madre, sono arrivato a guardarlo negli e dirgli che se avesse toccato, ancora, mia madre, io mi sarei dimenticato che era mio padre.
Fu una minaccia la mia, lui mi guardò negli occhi e sapeva che erano occhi da assassino da lui creati.
Questo sono riuscito ad ottenerlo non solo con la minaccia, ma anche con un patto allargato verso i miei fratelli: loro dovevano stare lontani da questo mondo perché avrei fatto tutto io.
I conflitti nascono se hai la fortuna di avere l’altra parte di genitore che non ha una mentalità ‘ndranghetista ma che è esempio di legalità.
Da quando collaboro, il mio ideale di uomo è mio nonno materno.
C’è un punto che vorrei approfondire: l’indottrinamento insegna, prima di tutto, a pensare.
Sì, la ‘Ndrangheta non trasforma in automi, prima di sparare, istruisce al pensiero, necessita, infatti, di menti pensanti, innanzi a noi un organizzazione che premia la meritocrazia, essa nel corso del tempo si è rodata a un livello di sopravvivenza che non ha pari ed è pronta a nutrirsi dei suoi stessi figli; per la salvaguardia della struttura madre vige il principio che, ad esempio, puoi tradire i tuoi stessi amici.
Nella ‘Ndrangheta non esisterà mai un boss killer e non ce ne sono, quelli che sono esistiti hanno avuto breve durata, se sei un killer resti un killer.
Ai miei tempi, per diventare capo non solo dovevi saper sparare ma, soprattutto, pensare.
Non è una società automa, fortemente indottrinata sì: non ti crescono come robot.
Del resto la ‘Ndrangheta, a differenza di altre mafie riesce ad essere orizzontale e verticistica allo stesso tempo. Dal punto di vista organizzativo è piatta, con una particolarità : ogni locale di ‘Ndrangheta vive in quasi totale autonomia dal vertice massimo di essa che, in gergo, viene chiamata “mamma“, la quale dal punto di vista strutturale rispetta i principi base dettati da una sua costituzione: la regola la rende unitaria e verticistica, riconosce un capo assoluto avente valore simbolico la cui funzione è quella di custode delle regole, un po’ come il nostro Presidente della Repubblica è garante della nostra Carta Costituzionale. Nella ‘Ndrangheta non esisterà mai un capo nel senso assoluto del termine e questo è un ulteriore punto di forza dell’organizzazione.
Minori che vengono utilizzati per il traffico di armi e di droga. Chi sono questi “Bambini soldato”?
Qualcuno è contrario a usare quest’espressione, sembra quasi abusata, in parte, perché nell’immaginario collettivo e per nostra convenienza di benessere mentale preferiamo volgere il nostro sguardo ai bambini rapiti nei villaggi africani o colombiani, stuprati, drogati e messe armi in mano all’età di dodici anni, vengono trasformati in “bambini soldato”.
Questo è dovuto al rifiuto di noi occidentali, emancipati, noi siamo evoluti e preferiamo credere che in casa nostra non vi sono questi problemi.
Tale rifiuto psicologico ed emotivo è anche incoraggiato da un mondo politico che non vuole mostrarci il degrado in quelle che sono le nostre “favelas”.
Il “bambino soldato”, da noi, è concepito per assumere tale ruolo, non viene rapito.
Sono minori che, a prescindere dal sesso e dal tipo di crimine, vengono messi al modo per essere avviati a passare cocaina da un palazzo all’altro, a prostituirsi, a fare la sentinella. Sono io a farti una domanda: come li chiameresti?
Inevitabilmente, “bambini soldato”. Non posso negare quest’espressione in quanto sbatte in faccia la realtà dei fatti.
Esatto e dirti quanto io ti sto dicendo è grave, perché non possiamo ignorare che dalla sentinella o dal corriere essi possono tramutarsi in boss, in killer… divengono carne da macello.
Mi stai descrivendo un percorso che parte dal piccolo per giungere a qualcosa di più importante e pericoloso.
Certo, in tutto ciò vi sono diversi aspetti da prendere in considerazione. La ‘Ndrangheta in primo luogo è un’ideologia, un credo fortemente sentito, ad oggi molto amata e desiderata da coloro che non sono parte della famiglia. Si cresce, dunque, un bambino in questo per senso di appartenenza, come se fosse un’ etnia: stiamo parlando di una società che possiede un proprio ordinamento penale, come le altre società.
In secondo luogo, occorre tenere conto che non tutti i genitori amano i propri figli, inoltre, come società, siamo molto lontani da determinati fattori: siamo estranei ai bambini e agli anziani.
Circa i bambini affascina il momento in cui li stiamo crescendo, man mano che crescono e raggiungono i diciotto / vent’anni, perdiamo quest’affezione verso l’infanzia.
Indipendentemente da un discorso di organizzazioni criminali occorre iniziare dei percorsi educativi rivolti ai genitori.
Come vive, invece, il figlio di un collaboratore di giustizia?
Come accaduto a me, grazie alla figura materna e a mia moglie, si origina la ribellione al quartiere in degrado, che vede l’uomo collaborare.
I loro figli, bambini o ragazzini che siano, vengono sottratti a un campo di battaglia, ma anziché essere protetti, vengono trattati da prigionieri di guerra.
Oggi il numero dei protetti è composto per 4/5 da familiari di denuncianti (collaboratori e testimoni di giustizia) e il 40 % di essi è composto da donne, bambini e adolescenti che vivono nel terrore e disagio più assoluto, sprovvisti, inoltre, di un idoneo documento di identità, cioè un vero e proprio cambio di generalità definitivo che tuteli la loro incolumità fisica e socio lavorativa.
Cadono in stato confusionale, entrano in crisi di identità, i livelli di divorzio nel campo delle famiglie di collaboratori è altissimo, così come il cambio di identità sessuale., ovviamente precisiamo che non stiamo discriminando i vari orientamenti. Questo indicatore ci fa capire che questi ragazzi non hanno una propria identità, sono nessuno e non sanno neanche cosa dire o come si chiamano, vengono lasciati in balia di bugie che non hanno fondamenta per poterle fare sembrare vere.
Ci sono bambini che si chiudono, divengono introversi, ragazzini che vivono nella solitudine della loro stanzetta.
Ciò che riescono a conquistare con difficoltà, dalla mattina alla sera viene spazzato via perché sono frequenti i trasferimenti, ciò genera il trauma: abbiamo bambini balbuzienti, altri con gravi problemi psicologici, complessati e, altri, che non hanno avuto la possibilità di terminare un percorso di studi.
Non hanno né futuro, né identità.
Vi sono genitori forti che riescono a contenere i danni, io e mia moglie siamo riusciti, ma non per tutti è così.
Parlando dei miei figli, loro sorridono, ma le informazioni dicono altro: mio figlio maschio ha richiesto supporto psicologico mentre andava a scuola, lo vedevamo cadere in depressione.
Mia figlia è, spesso, confusa e niente la rende felice, la sua vita è senza sapore.
Questi ragazzi non vengono considerati, sono isolati, si nota l’odio che ricade su di essi, gli viene negato loro il diritto a sognare e, molte volte, non possono curarsi come devono
Vi sono minori che hanno paura ad affezionarsi, a legare con l’altro e a voler bene, a volte, addirittura se lo impongono, perché sanno che, con ogni probabilità, verranno sposati altrove.
Mancano percorsi di accompagnamento, rieducazione e assistenza, questo è, c’è solo repressione e annullamento di ogni diritto, non vi sono le condizioni affinché si possa usufruire dei diritti spettanti a tutti.
Nel corso di questo intenso discorrere , i ruoli, in alcune occasioni, si sono invertiti e da intervistatrice, sono stata io ad essere intervistata.
C’è una domanda postami da Luigi che voglio condividere con tutti i lettori: “Pensi davvero che la gente odi gli ‘ndranghetisti, Mara?”
La mia risposta: “No, portano vantaggi”.
Per concludere, consiglio la lettura di “Passiamo all’altra riva “, libro intervista di Benito Giorgetta a Luigi Bonaventura.
C.E. Youcanprint