Tra psiche e letteratura.
“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”.
Alda Merini
Dopo aver varcato la soglia di spazio e tempo, la follia riesce ad affascinare poeti, scrittori e filosofi di ogni epoca, dal passato al presente, instancabilmente, senza mai fermarsi e, in tal modo, diviene oggetto di capolavori riconosciuti patrimonio universale.
Omero, autore de “Iliade e “Odissea”, considera la pazzia quale malattia mentale causata da una punizione divina.
Platone, uno dei massimi esponenti della filosofia antica in “Fedro” scrive: “La follia è tanto superiore alla sapienza, in quanto la prima viene dagli dei, la seconda dagli uomini”, egli pone, dunque, l’accento sul duplice aspetto di quest’ultima: malattia mentale da una parte, potenziamento della personalità dall’altra.
Orlando, Don Chisciotte, Enrico IV, Humbert Humbert (stimato professore in Lolita di Vladimir Nabokov) … la letteratura è intrisa di personaggi colpiti da differenti forme di instabilità psichica, così come, del resto, diversi autori, vivono un’esistenza al di là dell’equilibrio.
“Dirò d’Orlando in un medesimo tratto/ cosa non detta in prosa né in rima:/ che per amore venne in furore e matto, / d’uom che sì saggio era stimato prima”.
Con questi versi, Ludovico Ariosto, ne “Orlando Furioso”, introduce uno tra i più importanti personaggi della letteratura italiana: un valoroso eroe, il perfetto cavaliere cristiano che, una volta innamoratosi di Angelica, abbandona tutti i suoi doveri e, infine, dopo aver scoperto l’unione della “sua” donna con Medoro, impazzisce, definitivamente,
In tutta l’opera l’argomento “mancanza di senno” assume fondamentale rilievo.
In preda alla delusione, Orlando diviene matto e il suo stato mentale è inequivocabilmente ricondotto all’amore non corrisposto, un amore che gli strappa la dignità di uomo e nobile guerriero e che, riducendolo alla pazzia, lo induce a vagare, prostrato, in ogni dove, senza meta.
Perduto, quindi, ogni sano dettame, viene paragonato a una bestia che tutto distrugge.
“Di qua, di là, di su, di giù discorre”, si legge nel testo.
Il senno del paladino viene poi recuperato da Astolfo che in sella all’Ippogrifo e accompagnato da San Giovanni Evangelista giunge al cielo della Luna ove si trovano le cose immateriali che, per via del caso o del libero arbitrio dell’uomo, si perdono sulla Terra.
Nonostante in tale “regno” vi siano le ampolle contenenti il senno smarrito , ciò che non si trova è proprio la follia, elemento che ha radici terrene.
Come accennato in precedenza anche Omero nei suoi poemi narra la dissennatezza.
Presa l’Odissea come opera di riferimento è possibile rintracciare alienazione in Polifemo, considerato matto dal resto dei Ciclopi, non appena, egli urla a gran voce la propria richiesta d’aiuto rispetto a Nessuno che vuole ucciderlo.
Odissea Libro IV.
“Paurosamente gemette, n’urlò tutta intorno la roccia;
atterriti balzammo indietro: esso il tizzone
strappò dall’occhio, grondante di sangue,
e lo scagliò lontano da sé, agitando le braccia,
e i Ciclopi chiamava gridando, che in giro
vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.
E udendo il grido quelli correvano in folle, chi di qua,
chi di là; e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa volesse:
<<Perché, Polifemo, con tanto strazio hai gridato
nella notte ambrosia, e ci hai fatto svegliare?
forse qualche mortale ti ruba, tuo malgrado, le pecore?
o t’ammazza qualcuno con la forza o d’inganno?>>
E a loro dall’antro rispose Polifemo gagliardo:
<<Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza>>.
E quelli in risposta parole fugaci dicevano:
<<Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo,
dal male che manda il gran Zeus non c’è scampo;
piuttosto prega il padre tuo, Poseidone sovrano>>”.
Se nel 500’ Ludovico Ariosto affronta il discorso “follia” in riferimento all’amore, con Omero entriamo nel merito della cultura popolare.
I poemi omerici, per secoli, vengono tramandati da cantori, i quali si servono di frasi ricorrenti che riemergono nel canto ogni qual volta si tratta il tema dell’insania: ciò evidenzia, come già anticipato, che ambedue i testi fanno riferimento alla demenza come punizione divina.
In Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, personaggio principale è un hidalgo spagnolo di nome Alonso Quijano che, appassionato di poemi e romanzi cavallereschi, si lascia coinvolgere da tali letture fino a venir trascinato in un mondo fantastico nel quale diviene cavaliere errante.
Ad affiancarlo in questo bizzarro e lungo viaggio in difesa dei deboli, Sancho Panza, un contadino al quale promette il governo di un’isola alla condizionedi divenire suo fido scudiero.
Da baldo eroe dedica le sue vittorie alla contadina Aldonza Lorenzo, ribattezzata Dulcinea de Toboso, tramutatasi per l’occasione in nobildonna.
Il fanatismo da cui è colpito lo conduce a vedere la realtà con occhi diversi e a combattere con nemici immaginari: i mulini a vento assumono le sembianze di giganti con braccia rotanti, i burattini si trasformano in demoni e greggi di pecore altro non sono che eserciti arabi.
Inevitabilmente, da copione, perde ogni battaglia.
Don Chisciotte simboleggia l’uomo che si batte contro le convenzioni, senza paura, guidato solo dai suoi ideali.
“Insomma, si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormir poco e di legger molto, gli si prosciugò talmente il cervello, che perse la ragione. Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri: incanti, litigi, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell’arsenale di sogni e d’invenzioni lette ne’ libri fosse verità pura, che secondo lui non c’era nel mondo storia più certa. (…) E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè gli parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e d’ andar per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure (…)”.
Immenso stacco temporale e passiamo a Luigi Pirandello, premio Nobel alla Letteratura nel 1934, per il quale “nascondersi” nella follia risulta essere una reazione a imposizioni sociali.
Prendiamo l’esempio di “Enrico IV“, opera teatrale del 1921 avente ad oggetto un giovane aristocratico che, nel corso di una festa in maschera, travestito da Enrico IV, cade da cavallo, batte la testa e perde la ragione.
Per dodici anni crede di essere lo storico personaggio e i famigliari, di conseguenza, lo assecondano.
Nel momento in cui torna nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, scopre che a causare la caduta è stato Belcredi, suo rivale in amore.
A distanza di vent’anni, alla villa giungono i medesimi ospiti della sera in cui è avvenuto l’incidente.
Tra essi vi è Frida, suo grande amore passato, accompagnata dal marito, un medico che vuole guarire il protagonista, il quale non appena vede la donna, impazzisce nuovamente e ferisce a morte Belcredi.
In conclusione, all’uomo non resta che accettare di vivere nella finzione, distaccato dalla vita e condannato all’incomunicabilità.
Enrico IV Atto terzo.
“Preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia […] questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere […] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! – Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. […] La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non l’ho vissuta!”.
Infine, cosa lega Alda Merini a Torquato Tasso?
Seppur quattrocento anni circa separano l’una dall’altro, entrambi affetti da patologie psichiche, vivono l’esperienza del manicomio.
All’interno della struttura di Sant’Anna, Torquato Tasso autorizza la pubblicazione di “Gerusalemme Liberata”, i cui passi risultano commoventi e di altissimo livello stilistico.
Da “Gerusalemme Liberata”, proemio
“Canto l’arme pietose e ‘l capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti”.
Anche Alda Merini subisce la violenza del manicomio con ulteriore sottoposizione a innumerevoli elettroshock.
La sua mente e la sua memoria non si spengono, ma da quel dolore sorgono sublimi versi dal forte impatto emotivo.
Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d’orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perchè l’immobilità mi fa terrore?
(Ieri ho sofferto il dolore da “La terra santa”)