Dipinti che raccontano la pazzia.
“La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla in comune con l’intelligenza e la logica delle idee”.
Jean Dubuffett
La storia dell’arte è intrisa di personalità artistiche le cui condizioni psichiche ne hanno condizionato la vita e la realizzazione di opere.
Menti instabili creatrici di immense sensazioni, scolpite o gettate sulla tela, in grado di spiegare che la fragilità non può intaccare la produttività artistica ma, di contro, permette di darSI voce con strumenti espressivi per nulla inferiori al considerato “sano”.
Ciò implica, di conseguenza, che l’arte deriva anche da forti tensioni emotive legate a un altrettanto importante sofferenza mentale.
L’emblema dell’artista folle si è, ormai, tradotto in realtà , basti pensare alle figure di Van Gogh, Ligabue e Munch, occorre però ricordare che grandi maestri del passato, non colpiti da specifici disturbi mentali come Bosch, Bruegel e l’italiano Carpaccio, hanno lasciato ai posteri rappresentazioni di stati allucinatori e comportamenti fuori del comune.
Del resto, come si legge in “ Arte e cervello” di Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini : ” Esistono artisti che dipingono ciò che vedono, altri che dipingono ciò che ricordano o ciò che immaginano. Il nostro cervello si modifica di fronte alla realtà ma, allo stesso tempo, è capace di cambiarla: un cervello “diverso” dovrà pertanto avere un rapporto diverso con la realtà”.
Propongo, oggi, una serie di dipinti che, in fondo, omaggiandola, rendono senso alla “pazzia”.
Edward Munch (1863 – 1944).
Edward Munch, ritenuto affetto da disturbo schizoide di personalità, con “Il Grido” realizzato in tre differenti versioni rivela al mondo la propria angoscia.
Sono le parole del pittore a spiegarne lo stato d’animo:“Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
– il sole stava tramontando –
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando”.
Cielo in fiamme, una strada e il mare color bluastro di un fiordo nei pressi di Oslo.
In primo piano un uomo dal volto cereo che, sconvolto, si stringe il viso tra le mani.
Il protagonista urla con tutta la forza un dolore che non viene udito e, forse, egli stesso rifiuta di ascoltare, deformando aria, acqua e nuvole che del sangue , queste ultime assumono il colore.
“Non ci saranno più scene d’interni con persone che leggono e donne che lavorano a maglia.
Si dipingeranno esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto e amato”, scrisse Munch nel 1889.
Contorni sfumati, forme indefinite e tinte in contrasto tra loro risultano essere il mezzo mediante il quale l’autore giunge ad interpretare il senso di afflizione esistenziale al quale l’essere umano è destinato a soccombere.
Accostamenti cromatici e alterazione dei soggetti svolgono, inoltre, una specifica funzione: permettere all’opera di agire direttamente sull’anima di coloro che osservano, in quanto estrinsecazione immediata della psiche del suo creatore.
La luce che, frontalmente, colpisce il soggetto, trasmette l’esatto senso di inquietudine.
Il lavoro di Munch è stato caratterizzato dall’ ossessione per le problematiche inerenti all’eterno conflitto tra vita e morte dal quale si evince, chiara, l’ influenza esercitata da Friedrich Nietzsche e dallo scrittore August Strindberg.
Il quadro è simbolo di un dramma collettivo: l’ angoscia di fine secolo che Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, analizzava, quotidianamente, nell’intimo dei suoi meccanismi.
Vincent Van Gogh, (1853 – 1890).
Basandosi sullo studio di novecentodue lettere scritte da Vincent Van Gogh (ottocentoventi delle quali indirizzate al fratello) e delle cartelle cliniche redatte dagli specialisti che ne seguivano l’evolversi della malattia, recenti studi ipotizzano che l’artista soffriva di una combinazione di disturbo bipolare e personalità borderline, escludendo, quindi, la schizzofrenia porfiria.
Un punto di domanda riguarda l’epilessia che, nel suo caso, era caratterizzata dalla presenza di convulsioni, allucinazioni e deliri, alla cui origine potrebbero esserci danni cerebrali causati da abuso di alcol, mal nutrizione, stanchezza mentale e carenza di sonno.
Vi è, invece, un’unica certezza: quando tali crisi, sotto forma di attacchi epilettici o allucinazioni si manifestavano, l’artista cadeva in forti stati depressivi, ansiosi e di confusione mentale che gli impedivano di lavorare, tanto che Van Gogh scriveva di sé: “Sono un pazzo o un epilettico”.
Il 22 dicembre 1889, un anno prima della sua morte, Vincent minaccia Gauguin con un rasoio e, subito dopo si recide l’orecchio sinistro che recapita, avvolto in carta di giornale, a una prostituta.
Un autoritratto che, non solo attesta la mutilazione autoinflittasi, ma immortalava il risultato sul corpo di una serie di problematiche.
Si è tentato di porre in relazione la malattia di Van Gogh con l’amore che lo stesso nutriva per il colore giallo, predominante nelle tele del periodo francese.
Di contro, in “Caffè d’interno di Notte” raffigurava le più tetre passioni con l’accostamento di rosso, verde, blu e ancora giallo.
“ La stanza è rosso sangue e giallo cupo con un bigliardo verde al centro, quattro lampade giallo limone, con una luce giallo arancione – verde. Ovunque vi è uno scontro o contrasto dei rossi e dei verdi più diversi, nelle figure degli accattoni addormentati, piccoli nella triste stanza vuota, viola e blu. La palandrana bianca del padrone, che da un angolo osserva questa fornace, diventa giallo limone o un pallido verde luminoso “.
C’è chi sostiene, ad esempio, che l’uomo trovava ispirazione dalle allucinazioni visive, le quali potevano alterare la cognizione cromatica e la percezione di forma e dimensione.
Nel complesso è necessario sottolineare che il genio creativo di Vincent, risiede nella capacità di osservare la realtà da prospettive non ordinarie.
Antonio Ligabue (1899 – 1965).
Irrequietezza, turbamento e follia erano i tratti caratterizzanti il percorso esistenziale di Antonio Ligabue.
Si narra che l’artista dipingeva lungo le rive del fiume Po, qualcuno, inoltre, asserisce che era solito abbandonarsi in bizzarre danze, riproduceva i movimenti degli animali ed emetteva versi e urla, per tali ragioni il suo stato mentale è definito “dissociato”.
Spesso, si dibatteva nella melma fangosa, si imbrattava dei colori che utilizzava e con ardore generava l’opera.
La sua arte, brutale per certi versi, , odora di terra, sangue e audacia, le composizioni per quanto tumultuose risultano, al contempo, equilibrate.
Una pittura incontrollata, passionale e sanguigna che riconduce al quesito: “Quale nesso intercorre tra genialità e follia?”.
Come spiegava Sigmund Freud : “L’’arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono rimaste per così dire vive le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva… L’artista è, originariamente, un uomo che si distoglie dalla realtà giacché non può adattarsi a quella rinuncia dell’appagamento delle pulsioni che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita di fantasia. Egli trova però la via per ritornare dal mondo della fantasia nella realtà in quanto, grazie a particolari attitudini, traduce le sue fantasie in una nuova specie di cose vere, che vengono accettate dagli uomini come preziose raffigurazioni della realtà. Così, in certo modo, egli diventa veramente l’eroe, il re, il creatore, il prediletto, ciò che egli bramava di divenire e questo senza percorrere la faticosa e tortuosa via della trasformazione effettiva del mondo esterno”.
Immagine in evidenza Gustave Courbet, “Le Désespéré“.