Oncologia pediatrica. Intervista a Andrea Ferrari, responsabile del Progetto Giovani presso l’Istituto Nazionale Tumori di Milano.
“Progetto Giovani“ nasce nel 2011 nel contesto della Pediatria Oncologica della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
Dedicato ai pazienti adolescenti (15-19 anni) e giovani adulti (fino a 25 anni, quando affetti da neoplasie di tipo pediatrico), ha l’obiettivo di creare un nuovo modello di organizzazione medica e di cultura specifica, con la sfida di occuparsi non solo della malattia, ma della vita dei ragazzi.
Dialogo, oggi, con Andrea Ferrari, oncologo e responsabile del progetto stesso.
Iniziamo con il raccontare la vostra realtà: oncologia pediatrica.
Il nostro è il reparto di oncologia pediatrica dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, diretto dalla dottoressa Maura Massimino, centro di riferimento nazionale e internazionale per i tumori solidi in dell’età pediatrica.
In cosa consistono i tumori solidi?
Dividiamo abitualmente i tumori del bambino in leucemie , cioè i tumori del sangue, e tumori solidi (tipo tumori cerebrali, sarcomi e altri numerosi istotipi). Nel nostro reparto ci occupiamo di tumori solidi dei bambini, ma anche di adolescenti e giovani adulti.
Qualche anno fa abbiamo cercato di allargare la fascia d’età, dedicandoci anche a pazienti di fino a 25 anni, quando colpiti da un tumore tipico dell’età pediatrica, tenendo conto che l’esperienza e l’approccio multidisciplinare fornito dai protocolli dell’oncologia pediatrica è fondamentale anche per pazienti più grandi.
Questo è il presupposto medico.
In questo contesto, ampliando la fascia d’età, ci siamo accorti che il reparto, storicamente nato con l’idea di occuparsi dei bambini, nel quale vi erano disegni sulle pareti o pagliacci che arrivano per fare divertire, era poco adattabile ai ragazzi di età superiore.
Adolescenti e giovani adulti hanno necessità differenti, bisogni clinici, psicologici e sociali particolari, modalità di approccio e comunicazione diverse; basti pensare agli aspetti legati alla preservazione della fertilità, o alla sessualità, o all’immagine corporea.
Da questa riflessione nasce “Progetto Giovani“.
Esatto, più di 10 anni fa, con l’idea di dare uno spazio clinico e sociale, reale e mentale, ai pazienti adolescenti e giovani adulti.
Entriamo nello specifico.
Fulcro del progetto è dare modo ai pazienti di esprimersi, di raccontare le loro emozioni, paure e speranze, quindi di elaborare quanto sta loro accadendo.
Abbiamo creato degli spazi per permettere ai ragazzi di uscire dalla stanza: storicamente, un paziente adolescente viveva i mesi della cura arrabbiato, isolato, come in apnea, sperando che il tempo passasse il più rapidamente possibile. Oggi l’idea è quella di permettere ai ragazzi di trovare un luogo in ospedale dove possano trovarsi con altri coetanei che stanno percorrendo la stessa strada, o che la hanno percorsa in passato. In questi spazi, possono invitare gli amici e avere progetti dedicati a loro, attimi in cui non pensano alla malattia, ma possono vivere pienamente la loro adolescenza, partecipando a svariati progetti: percorsi fotografici, di moda, di scrittura, di musica.
Per mezzo della creatività i ragazzi riescono a raccontare cose che non esprimono direttamente nei colloqui con medici e psicologi.
Occuparsi di adolescenti malati vuol dire una presa in carico a 360 gradi, che considera il paziente non come una malattia ma come una persona, parlando così dei suoi sogni, delle sue speranze, dei viaggi che vuole fare terminata la cura, della fidanzata o del fidanzato.
Loro sono ragazzi adolescenti prima che pazienti.
Quali sono gli aspetti fondamentali di tale progetto?
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Gli aspetti fondamentali sono come detto avere degli spazi dedicati, ma anche un team dedicato, e proporre ai ragazzi progetti continui, che durano molti mesi, che permettono loro di condividere, raccontare e anche passare momenti divertenti. Si ride molto al Progetto Giovani, anche con autoironia. Tutti sono accettati, con pregi e difetti, perché riconosciuti come simili. I progetti durano mesi e danno ai ragazzi anche una visione di futuro, in un momento in cui il loro orizzonte temporale è ristretto al momento della dimissione o del prossimo ricovero. Lavoriamo a marzo per un progetto che uscirà a Natale: anche questo è una forma di aiuto non da poco. Tutti i progetti sono realizzati con professionisti che danno al laboratorio – di fotografia o musica o scrittura – una forma molto professionale e assicurano un prodotto che possa essere poi disseminato, con l’idea di raccontare la vita in ospedale ma anche di aumentare la consapevolezza, nella popolazione generale e tra la comunità scientifica, delle problematiche degli adolescenti con tumore, dell’importanza della diagnosi precoce e dei protocolli dedicati. Per fare un esempio, la canzone Palle di Natale, realizzata sei anni fa, è stata vista da 17 milioni di persone.
Il concetto è, quindi, di umanizzazione delle cure.
Umanizzazione delle cure è un concetto di cui si parla spesso, in questi ultimi anni.
È un po’ abusato, forse. Ma è un concetto fondamentale. Vuol dire curare una persona, con tutto il suo mondo, e non una malattia.
Come varia l’approccio a seconda che il paziente sia bambino, adolescente o giovane adulto?
Nel bambino l’approccio è basato su un modello di cura che vede al centro la famiglia. Il primo riferimento sono i genitori: il colloquio, la comunicazione della diagnosi e della prognosi passa sempre per il genitore. Come di parla al bambino, cambia molto in base all’età e del livello di maturità dei diversi bambini. Spesso il gioco è la chiave per il rapporto con il bambino. È un modello di cura a triangolo, i tre vertici sono i medici, i genitori e il bambino.
Questo modello, che per anni è stato utilizzato anche nei pazienti di età maggiore, non può adattarsi alle esigenze dei pazienti adolescenti.
Gli adolescenti e giovani adulti, infatti, non possono essere considerati bambini più grandi, non possono accettare una comunicazione filtrata dai genitori. Gli adolescenti vogliono essere al centro del loro percorso di cura, essere informati nel modo più completo possibile, vogliono sapere tutto, sia di quello che significa una diagnosi di tumore, sia di quello che gli accadrà con la terapia. Occorre un modello di cura che stia a metà tra quello che si utilizza nel mondo pediatrico e quello dell’adulto, dove il rapporto è più tecnico, asettico. Abbiamo preso i lati positivi di questi modelli e posto il paziente al centro di tutto, senza scordare il ruolo fondamentale della famiglia.
Per un’adolescente, quant’è difficile accettare la malattia, ma soprattutto, fino a che punto ne è consapevole?
L’adolescenza è una fase particolarmente difficile della crescita, è quel momento nel quale l’individuo cerca di sviluppare la propria indipendenza dall’adulto; ecco che all’improvviso, con il tumore, un ragazzo si trova a dover dipendere da genitori e medici; non è facile per un ragazzo diciottenne trovarsi in stanza con la madre che lo aiuta a lavarsi o a usare il pappagallo. L’adolescenza è la fase della crescita in cui si scopre il proprio corpo; ed ecco che il corpo si ammala e non funziona come dovrebbe. Improvvisamente, i ragazzi devono sostituire i compagni di scuola con i compagni di corsia, l’ansia per il compito in classe o per un appuntamento con una ragazza con l’ansia per l’esito della TAC.
La malattia tumorale è un grosso trauma e può avere conseguenze complesse sui ragazzi, portando a depressione, regressione, rifiuto. I pazienti hanno bisogno di un adeguato supporto. Se si riesce a fare sentire i ragazzi al centro del percorso di cura si crea la condizione per poter affrontare al meglio la diagnosi e le terapie. Si cerca di fargli raccontare le loro paure, le loro speranze: più si riesce a tirare fuori ciò che hanno nel cuore e nella testa, più gli si è di supporto, più loro riescono a capire quello che sta loro accadendo.
Quando si ammala un bambino, invece, come si riesce a guardare negli occhi un genitore e dare una diagnosi di cancro?
È molto difficile, ma è il nostro lavoro. Il punto non è crearsi barriere difensive, ma imparare la professionalità che permette di comprendere l’approccio giusto, che è differente in ogni singolo paziente, in ogni singolo genitore.
L’oncologo pediatra è un lavoro difficile, un lavoro che si sceglie e non in cui si capita per caso; un lavoro che comporta rinunce e richiede amore e passione, e situazioni di stress e dolore che in altri contesti non troveresti.
Fondamentale è essere VERI. Che sia un bambino, un adolescente o un genitore, chi hai davanti lo sa se sei vero, se ti metti in gioco; e comprendono i tuoi limiti di professionista e uomo.
Infine, le chiedo: cosa significa occuparsi di un paziente?
Occuparsi tanto della malattia quanto della vita dei pazienti.
Vuol dire essere medici che capiscono che il nostro sapere scientifico e i nostri protocolli sono fondamentali, ma non bastano, occorre mettersi in gioco tutto: occorre metterci il nostro cuore.
Per ogni paziente occorre la chiave per entrare in contatto diretto con la sua vita.
Per info “ Progetto Giovani“ visita il sito https://ilprogettogiovani.org/