MA-EC Gallery. Intervista a Peishuo Yang.
Il mio cammino nel mondo dell’arte prosegue affiancata, questa volta, da Peishuo Yang, gallerista, titolare di MA-EC Gallery, Milano.
Una chiacchierata, la nostra, che ruota intorno a svariati ambiti: culturale, percorsi personali che divengono professionali, emotiva e strettamente connessa, dunque, all’importanza dei contenuti trasmessi, ma anche tecnica.
Spieghiamo il tuo ruolo: cosa significa essere una gallerista?
Essere una gallerista, in primo luogo, vuole dire individuare artisti di talento, capire il loro messaggio, comprendere il loro percorso artistico e, infine, proporre l’artista al pubblico interessato, ai collezionisti e inserirlo sul mercato.
Come riesci a cogliere le loro potenzialità? Le loro capacità soggiacciono a valutazioni tecniche o ad altri fattori, come ad esempio lo stimolo emotivo che deriva dalle loro opere?
Dipende, sempre, da una serie di elementi.
Ci vuole talento, tenacia, fatica, insistenza.. un poco di fortuna, anche.
L’artista deve essere, in primis, convinto della vita che decide di fare e accettare una strada lunga e difficile, un impegno che deve portare avanti, fino in fondo.
La tecnica, sì è importante, ma ciò che conta è il messaggio che quest’ultimo vuole donarci, la sensazione che riesce a suscitare nel fruitore, la magia rivelata, la capacità di anticipare ciò che accadrà dopo.
Secondo me, quella dell’artista, tra tutte le professioni è quella più complicata.
Sì, lo penso anche io. A volte, se penso all’Italia, vedo un contesto nel quale l’arte non viene trattata al meglio.
Forse perché c’è troppa arte.
Dal tuo punto di vista, dunque, c’è troppa arte?
Se guardo al passato vedo un immenso patrimonio culturale, imparagonabile e, quindi, la gente essendo abituata al bello si aspetta molto anche dagli artisti contemporanei.
Soprattutto, su un discorso di arte contemporanea che, se paragonata, appunto, al classicismo piuttosto che ad altre correnti passate, quale può essere il Barocco, appare strana.
Esatto, il patrimonio culturale è così imponente da rendere difficile l’accettazione di un linguaggio contemporaneo.
Come galleria, noi, lavoriamo su un palcoscenico internazionale. Io sono cinese, però il mio staff è italiano, ci muoviamo con altri Paesi europei, Germania, Francia, e organizziamo eventi fuori sede in Italia.
Il mio Paese, per via della pandemia, tra l’altro, ha subito tre anni di fermo, per fortuna, adesso il mondo dell’arte ha riaperto i battenti, da qualche settimana.
Prima dell’emergenza sanitaria il mercato asiatico era veramente importante, ha dato nuovi spazi al collezionismo e al mecenatismo internazionali.
Molti artisti, vogliono arrivare a esporre a Milano. Milano è un punto d’arrivo o di inizio? É realmente il fulcro di tutto?
Milano ha il suo rilievo, però il punto d’arrivo è altro, come città, sicuramente, è un punto di partenza.
I punti d’arrivo sono sempre le fiere, quelle esclusive.
Accademicamente, a livello professionale, per un artista, qui in Italia, il vero riconoscimento giunge quando si arriva ad esporre alla Biennale di Venezia.
Sei cinese, raccontaci un po’ l’arte cinese che, magari, noi italiani siamo poco esperti.
La Cina ha un po’ lo stesso problema dell’Italia, abbiamo l’arte cinese classica, tradizionale, moderna e, qualcosa di contemporaneo, sia sul territorio sia già inserito nel circuito internazionale.
Fino agli anni 70’ e 80’ non c’è stata una particolare influenza dell’occidente nel mio Paese, però c’è stato un periodo di grande interscambio con la Russia che ha avvicinato al Super-realismo.
I cinesi hanno conosciuto la pittura ad olio tramite i grandi maestri russi quindi, per concetto cinese, la pittura ad olio non deve essere proprio classica, pittura ad olio che, sì, costituisce per i cinesi una forma di contemporaneità, ma che non è proprio così, in quanto l’arte deve comprendere installazioni, performance, astrattismo ecc..
Il periodo dell’avanguardia nel mio Paese non è stato vissuto nel corso del suo evolversi, bensì tutto insieme: arte classica, surrealismo, rococò.
Gli artisti cinesi di inizio anni 90’ sono riusciti a giungere alla Biennale di Venezia, questo ha permesso il contatto con l’arte contemporanea occidentale e, devo dirti, che ora come ora, hanno voglia di uscire dal loro contesto.
Lo scambio diretto è fondamentale.
Quali differenze intercorrono tra il ruolo della gallerista e della curatrice?
Io sono, forse, più un’organizzatrice, la curatrice è un lavoro più accademico e tecnico, spiega la mostra al pubblico.
La gallerista, per così dire, è una commerciante di opere d’arte con uno spessore culturale però non indifferente.
Esatto, era questo a cui volevo arrivare: un qualunque soggetto, non può alzarsi una mattina e decidere di diventare gallerista. Occorrono delle basi.
Sì, occorre preparazione culturale, sensibilità e anche capacità commerciale.
Bisogna curare molto il lavoro di pubbliche relazioni e di collegamento, in grado di mettere insieme mondi diversi: quello intellettuale e artistico con quello di collezionisti e investitori, i quali puntano a sostenere i giovani artisti. Ci sono poi gli appassionati d’arte.
Insomma, è un settore molto strutturato.
Hai parlato di giovani artisti, raccontiamoli.
Il rischio per noi è la loro instabilità.
Avendo lavorato con tanti ragazzi alle prime armi, posso dirti che molti hanno abbandonato il settore, lasciano, decidono di fare altro e abbandonare il campo.
Sono pochissimi coloro che, nonostante le enormi difficoltà, hanno scelto di proseguire su questa via per tutta la vita… non è un lavoro immediato, i frutti arrivano con il tempo.
Noi cerchiamo di capire anche se uno è determinato: in questo ramo si semina oggi e, magari, si raccoglie tra vent’anni.
Questo particolare non è molto chiaro a tutti, non ci rende conto che i campi scultura, pittura, musica e scrittura non da frutti nell’immediato, non esiste. La gavetta è lunga.
Esatto, quindi o si è fortunati e si è sostenuti o si fa altri lavori in contemporanea.
Se una persona è determinata, lo fa volentieri.
Seppur vi siano innumerevoli difficoltà, un vero artista non può fare a meno di produrre: si sentirebbe male, non avrebbe un veicolo con cui esprimersi, questo è il suo mondo.
Dunque, entriamo in quel legame molto forte che intercorre tra arte e psicologia.
Assolutamente, sì.
Tutti amano l’arte ma se si decide di restare, nonostante la sofferenza, allora si appartiene a questa sfera: è crudele da dire, ma è così.
C’è anche da sottolineare che abbiamo tanti artisti e un campo ristretto.
Per concludere, non posso non chiederti di raccontarci il tuo percorso personale.
Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Ai miei tempi si studiava ancora disegno, anatomia: disegnavamo in modo classico.
Oggi tutto è molto digitalizzato, cosa che ho constatato su tesi di laurea che ho avuto modo di vedere, è più l’idea che conta.