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“Insegno a fare la pizza ai detenuti“. Intervista a Ciro Di Maio.

Ciro Di Maio è un giovane pizzaiolo originario di Frattamaggiore, nel napoletano.
Dal 28 febbraio sta insegnando l’arte della pizza ai detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, grazie ad un progetto ideato in collaborazione con Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, e sostenuto dalla direttrice del carcere stesso, Francesca Paola Lucrezi.
Una breve introduzione per cedere, dunque,  il passo al protagonista di oggi.

Come nasce questo progetto?

Intanto, c’è da dire, che è una sorta di seguito. Ha origine da un progetto portato avanti, in precedenza, da mio padre con ragazzi meno fortunati e tossicodipendenti, a Napoli.
Venuto a mancare mio padre per una malattia, io e mio fratello abbiamo deciso  di continuare.

Perché hai scelto di stare in mezzo a loro?

Perché proprio lì tocchi di mano problematiche da affrontare, che sono diverse.
Ci sono ragazzi che non hanno avuto una possibilità nella vita, ragazzi che, spesso, hanno avuto problemi di matrice familiare o non hanno avuto una famiglia, una guida, una persona emblematica in grado di veicolarli come è successo a noi con i nostri genitori.
Molti giovani, soprattutto nel corso che teniamo,  sono legati a un passato di tossicodipendenza, un giro non facile da cui uscire
Quindi, abbiamo deciso di aiutare chi ha voglia di essere aiutato.

Ciro DI Maio

Quando stai con questi ragazzi, cosa senti, cosa percepisci?

Percepisco la difficoltà di andare avanti e la paura del futuro.
Lo sento dalle loro parole questo timore, perché quando escono dal carcere, vi è la possibilità che tornino a delinquere, compiere atti negativi o fare uso di sostanze.
Parlando di questo con un ragazzo, gli ho chiesto se una volta fuori da qui, ha la sicurezza di non tornare a fare uso di droghe.
La sua risposta è stata che ci avrebbe messo tutta la sua volontà, che ci aveva provato più volte e che spera che, quest’ultima, sia  la volta buona.
Soffrono, perché conoscono la loro dipendenza.

Come ti relazioni con loro? Qual è il miglior approccio?


Secondo me, fargli capire che siamo tutti sullo stesso livello. Io e mio fratello arriviamo, comunque, dalla strada, dalle case popolari, quindi, non siamo né meglio né peggio di loro. Siamo stati solo un po’ più fortunati perché abbiamo avuto in nostro padre una linea guida che ci ha insegnato a stare lontani da un certo tipo di esistenza.

Ciro Di Maio

Stai vivendo in prima persona stai questa realtà. Quali pensi che saranno  le maggiori difficoltà che troveranno una volta usciti dal carcere?

Il più grande problema, sicuramente, è il pregiudizio.
Anche io, prima di buttarmi in questo progetto, ho provato questo stato, sulla mia pelle.
Ad esempio, non avrei mai preso un tossicodipendente a lavorare, o un ex detenuto.
 Poi, stando con loro ho capito che una seconda possibilità va data a tutti, certo, c’è colui che la sfrutta alla grande e chi non riesce.

Nell’ambito di questo progetto, oltre a te, quali altre figure partecipano?

Ci sono gli educatori del carcere, la polizia penitenziaria che ci segue, tutte persone che danno davvero tanto.

Quale messaggio vuoi divulgare, ma soprattutto, quali sono le tue aspettative.

Voglio fare capire che occorre stare più vicini ai giovani,  mai lasciare indietro nessuno, sappiamo che ci sarà sempre qualcuno che può scegliere la via errata, però bisogna dare un contributo affinché ciò non avvenga.

Noi organi di stampa come possiamo fare per coadiuvare all’abbattimento del pregiudizio rispetto ai detenuti?

La stampa può fare tanto.
Oggi, purtroppo, l’opinione pubblica conta più dell’opinione dello Stato stesso e, spesso, condanna più di quest’ultimo.
Bisogna avvicinare il mondo reale al mondo del carcere.
Solo la conoscenza può abbattere il pregiudizio.
Ripeto, anche io, prima di metterci piede ero scettico, conoscendo, personalmente, questi ragazzi, le loro storie e le loro fragilità, mi sono convinto che occorresse educarli e dare loro un motivo per ricominciare a vivere.

Cosa ti rendeva così scettico?

Beh, il fatto di dire: sono lì perché hanno sbagliato e devono pagare la loro pena.
Oggi, la penso nello stesso modo, ovvero chi sbaglia deve pagare, però quella pena, magari,  può essere sfruttata in altro modo, insegnando qualcosa.
Il carcere ( lo dice la legge italiana )  svolge una funzione riabilitativa,  se non si adempie ad essa, non si danno opportunità, questi ragazzi  rischiano di uscire peggio di prima: non diventano esseri umani ma bestie.
Si può, dunque, fargli comprendere gli errori commessi.
Ognuno con la propria coscienza può dare qualcosa: un insegnamento che a noi può sembrare una sciocchezza per loro è molto.

Infine, come vivi tutto ciò?

Lo vivo in modo positivo perché, adesso, che ho instaurato un bel rapporto con i ragazzi facciamo le pizze e ci divertiamo, giochiamo. Con mio fratello spieghiamo anche la teoria.
La pratica però unisce, parliamo di  un alimento che congiunge nazioni e religioni.
La Margherita, ad esempio, è accettata tanto dai cristiani quanto dai musulmani che non possono mangiare carne.
C’è la Marinara che può essere mangiata da tutti coloro che non tollerano il lattosio.
É una cosa simpatica.

Quindi, uno dei poteri della pizza è portare a compimento una sorta di integrazione tra culture differenti?

Sì. Ingloba culture e persone diverse.




Mara Cozzoli

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