“MEMORIE DELLA RESISTENZA E DELL’ITALIA LIBERA”. FERRUCCIO PARRI (1890-1981). PARTE PRIMA
Articolo a cura di Carlo Capocasa e Cozzoli Mara con la collaborzione di Maria Teresa Parri.
Ferruccio Parri nacque a Pinerolo (Torino) il 19 gennaio 1890 da Fedele e Maria Marsili, quarto di cinque figli. Il padre Fedele, era nato a Mercatello sul Metauro il 14 ottobre 1855 e morì a Genova il 7 maggio 1946. Sposò la N D Maria Marsili contessa di Colle Rosso dalla quale ebbe 5 figli: Niobe (1882), Walther (1886-1964), Ferruccio (1890-1981), Giovanni e Maddalena, secondo notizie derivanti dall’albero genealogico compilato nel 1940 da Prisca Parri. Dopo aver completato gli studi liceali, Parri si iscrisse nel 1908 alla facoltà di lettere dell’Università di Torino, scegliendo l’indirizzo storico-geografico. Da studente fu lettore de La Voce di Giuseppe Prezzolini, che in linea con il pensiero mazziniano vigente in famiglia, indicava a lui il compito di battersi per una riforma etica della politica e la promozione di una educazione civile del popolo italiano. Tornato a vivere con la famiglia, nel frattempo trasferitasi a Genova, Parri completò sotto la direzione di Pietro Fedele la tesi di laurea in storia moderna. Svolto a Genova nel 1913 in servizio militare (corso allievi ufficiali presso il 90° reggimento di fanteria), decise di seguire la carriera paterna, dedicandosi all’insegnamento. Fu quindi incaricato nel 1914 come insegnante di lettere presso l’Istituto tecnico e nautico di Genova. Parri affrontò l’esperienza della guerra imminente come sottotenente di complemento presso il 42° reggimento di fanteria.
Partì per il fronte nel maggio 1915 come sottotenente di complemento dell’89° reggimento di fanteria. Combattè sul monte Merzli, riportando due medaglie e diverse ferite. Diventato tenente per meriti di guerra, combatté nel 1916 sull’altopiano di Asiago e poi sul Carso, dove fu nuovamente ferito. Il suo disprezzo per il pericolo fu riconosciuto dalle autorità militari che gli conferirono tre medaglie d’argento al valore. Nel 1917 ricevette la Croix de Guerre della Repubblica francese. Nel 1917 fu promosso al grado di capitano e svolse mansioni di ufficiale di collegamento presso il comando della 28° divisione sul Carso. Con il grado di maggiore, nell’aprile 1918 venne assegnato all’ufficio operazioni del comando supremo. Parri svolse un ruolo importante nella preparazione della controffensiva di Vittorio Veneto. Sua infatti fu l’idea di concentrare il massimo sforzo per lo sfondamento delle linee nemiche nella zona in cui effettivamente avvenne. Con la fine della guerra, Parri continuò a occuparsi di questioni politico-militari relative all’armistizio. Compì studi per il riordinamento dell’esercito, prima di lasciare il servizio militare il 17 giugno 1919. Si trasferì a Roma dove rimase fini al 1921, lavorando nell’Organizzazione nazionale combattenti. La persistenza delle idee antigiolittiane caratterizzò la riflessione di Parri negli anni del primo dopoguerra. Fino quasi alla marcia su Roma, guardò al fascismo con fastidio. In quel periodo grazie alla conoscenza della famiglia Visconti Venosta, entrò in contatto con Luigi Albertini. Nel 1922 fu assunto al Corriere della sera. Nel 1923 passò come ordinario di lettere nel ginnasio inferiore del liceo Parini. Appena dopo il matrimonio con Ester Verrua, già compagna di liceo, Parri andò a vivere in via Moscova. La casa di Ferruccio e di Ester Parri divenne uno dei luoghi della cospirazione antifascista, dove passarono Ernesto Rossi, Carlo Rosselli e Piero Gobetti. La frequentazione del Corriere albertiniano coincise con una maturazione di Parri in senso liberal-democratico.
La prima importante iniziativa antifascista fu la fondazione de Il Caffè, un quindicinale che uscì il 1 luglio 1924 per chiudere nel maggio 1925 quando ormai la strada della fascistizzazione dello Stato era intrapresa. Intorno a Parri e Riccardo Bauer si strinse un gruppo di antifascisti di vario orientamento culturale. Lo scopo del gruppo era la lotta al fascismo evitando che quella lotta finisse per promuovere la diffusione del comunismo. Il gruppo era convinto che fosse necessario conquistare il ceto medio per promuovere la democratizzazione dello Stato liberale. Un’altra iniziativa di Parri fu la pubblicazione nel 1924 del periodico La Patria, un settimanale dei combattenti lombardi che intendeva contrastare la fascistizzazione dell’Associazione nazionale dei combattenti (ANC). La Patria riuscì a resistere fino al giugno 1925. Il ciclo della rivoluzione antigiolittiana era chiuso, mentre si apriva quello della battaglia antifascista per la democrazia. Nel 1925 Parri si dimise dalla redazione del Corriere che ormai era stato sottratto agli Albertini e allineato dalla nuova proprietà alle direttive del governo fascista. Le dimissioni furono per Parri l’occasione per compiere il primo gesto pubblico del suo antifascismo. Parri quindi partecipò alla creazione di una rete clandestina. Insieme a Carlo Rosselli, a Sandro Pertini e altri, realizzò , nel dicembre 1926, l’impresa di trasferire Filippo Turati in Francia, sbarcando in Corsica. Arrestato insieme a Rosselli sulla via del ritorno, fu protagonista, dopo la carcerazione, del processo celebrato a Savona, destinato a entrare nella memoria dell’antifascismo. Parri e Rosselli accusarono dal banco degli imputati il regime di Benito Mussolini, definendolo l’incarnazione dell’antinazione che condannava al carcere i combattenti della Grande Guerra. Le pene inflitte dal Tribunale di Savona furono seguite da una persecuzione di tipo amministrativo.
Parri trascorse sei anni di carcere e confino che si conclusero il 20 dicembre 1932 in seguito alla amnistia concessa dal regime in occasione del decennale della marcia su Roma. Passò attraverso due processi (Savona e Roma) e fu inviato in quattro luoghi di confino e fu soggetto a sorveglianza costante nel breve intervallo di libertà di cui godette nel 1930. Nel 1930 Parri fu liberato con atto di clemenza di Mussolini. Tornato a Milano, svolse per qualche tempo una vita normale fino a quando si trovò coinvolto nella retata del 29-30 ottobre 1930 che portò in carcere il gruppo di Giustizia e Libertà di Milano. Parri fu assolto dalla commissione istruttoria del tribunale speciale per la difesa dello Stato per insufficienza di prove. Nel 1931 nuovamente recluso nel carcere romano di Regina Coeli subì una nuova condanna a cinque anni di confino che non dovette scontare per intero, potendo usufruire dell’amnistia del 1932. Il ritorno a Milano aprì una stagione nuova. L’interessamento di amici di vecchia data fu per lui determinante. Tra questi, Giorgio Mortara, lo studioso di statistica, conosciuto ai tempi del comando supremo, che era stato invitato da Giacinto Motta, presidente dell’Edison, per curare un’opera che illustrasse la storia dell’industria elettrica in italia. Mortara colse l’occasione per suggerire la collaborazione di Parri che iniziò così a lavorare presso l’ufficio studi dell’azienda milanese. Lo scenario aperto dalla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 convinse Parri che il momento di impugnare le armi fosse tornato. Il progetto iniziale di coinvolgere parti dell’esercito regio nella lotta antifascista gli aveva fatto accettare con difficoltà i pronunciamenti repubblicani del Partito d’azione, al quale aveva aderito fin dall’inizio nel 1942. Dopo aver accettato l’incarico di responsabile militare del Partito d’azione a settembre, fu naturale che in autunno i vertici del partito pensassero a lui come guida delle formazioni di Giustizia e Libertà. Assunto il nome di battaglia di Maurizio, Parri accettò l’incarico non senza qualche esitazione, perché, pur rendendosi conto del ruolo crescente che le formazioni politiche stavano esercitando nella Resistenza antifascista, restava in lui la convinzione che la nazione venisse prima dei partiti. Parri divenne quasi naturalmente il capo del comitato militare del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) milanese che si riuniva nei sotterranei della Edison. Coadiuvato da Alfredo Pizzoni, presidente del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) fino al 27 aprile 1945 e tesoriere della Resistenza, egli mostrò fin da subito di avere idee molto chiare: separazione tra decisioni politiche e scelte militari, accentramento su di sé e sul proprio gruppo (formato da Giovan Battista Boeri, Fermo Solari, Alberto Damiani, Alberto Cosattini) delle seconde, centralità della direzione operativa sottratta ai capi diretti delle formazioni, costrizione dell’opera dei commissari politici entro i limiti dell’educazione politica unitaria, preferenza data a formazioni agili a scapito di quelle grandi (come quelle garibaldine) e monopolio dei rapporti con gli Alleati. Tutto ciò fu sufficiente a provocare uno scontro con i comunisti. Essi lo accusarono, infatti, di lesinare mezzi alle formazioni garibaldine, di dare spazio a elementi apolitici, di mantenere molte attività fuori dal controllo del CLN e dello stesso comitato militare. La tensione intorno alla presunta “dittatura incontrollata” di Parri traeva origine anche da episodi particolari, come, ad esempio, il viaggio che egli aveva compiuto in svizzera nel novembre 1943. A Certenago, aveva incontrato insieme a Leo Valiani i rappresentanti dei servizi segreti alleati, Allen Dulles per la statunitense Office of strategic service e John Mac Caffery per la britannica Special operations executive. La svolta di Salerno, quando l’arrivo di Togliatti da Mosca cambiò la posizione del Partito comunista, ebbe l’effetto di diminuire il timore di un’insurrezione. La nomina di Luigi Longo a capo delle formazioni Garibaldi, incaricato di gestire il comitato militare del CLN insieme a Parri, contribuì a svelenire i rapporti. Parri e Longo si dedicarono a rafforzare le strutture della Resistenza. Pur reputando necessario un compromesso tra monarchia e antifascismo, Parri temeva che le istanze di rinnovamento politico potessero venire indebolite dal ripristino del gioco politico tradizionale, riorganizzatosi a Roma all’ombra delle armi alleate. La vicenda del Corpo volontari della libertà (CVL), di cui il generale Raffaele Cadorna divenne comandante nel novembre 1944, coadiuvato da due vicecomandanti, Longo e Parri, si svolse all’insegna della necessità di stabilire collegamenti con Roma e con gli Alleati senza disperdere però la spinta autonomistica proveniente dalle file dei partigiani. I vertici politici e militari della Resistenza si recarono quindi nell’Italia liberata per prendere contatto con le autorità militari anglo-americane e le autorità politiche di Roma. I Protocolli di Roma del 7 dicembre 1944 e il riconoscimento da parte del governo Bonomi il 26 dello stesso mese, permise al CLNAI e al CVL di trovare finalmente una collocazione giuridica e finanziaria che permise loro di arrivare fino ai giorni della Liberazione. Il 2 gennaio 1945 Parri venne catturato dalla Gestapo in un appartamento milanese dove era stato appena nascosto sotto falso nome insieme alla moglie. Insieme a lui furono presi alcuni giovani a lui fedeli, tra i quali l’olandese Walter de Hoog, nome di battaglia Tulipano. Parri fu interrogato nei locali dell’hotel Regina per poi essere trasferito nel carcere di Verona. Il suo caso entrò in una complessa trattativa tra i servizi segreti anglo-americani e le autorità naziste in cerca di un salvacondotto. Una volta liberato, trascorse le ultime settimane prima della Liberazione in Svizzera.