Tra fotografia e psicologia. intervista a Alessia Spina, fotografa.
Con la complicità di Alessia Spina, fotografa, ho scelto di rompere i tecnicismi propri di un’ intervista.
Una decisione presa di comune accordo da entrambe in virtù dei diversi i contenuti che abbiamo voluto trasmettere.
Due percorsi simili che, attraverso il rispecchiamento, si sono guardati l’uno attraverso l’altro.
Non aggiungo altro e lascio spazio a questo anomalo e curioso interscambio mezzo stampa che, difficilmente, qualcuno considererà intervista.
Ci racconti qualcosa di lei.
In realtà ho un background in interpretariato e traduzione in quanto ho una formazione in lingue: inglese, spagnolo e francese.
Nei primi anni ho lavorato da tour leader perché ho preso l’abilitazione alla professione mentre studiavo, allo stesso tempo mi dedicavo alla fotografia cosa che, per altro, facevo sin da bambina dato che nasco in una terra che offre molti spunti dal punto di vista naturalistico e paesaggistico, amavo collocare le persone nelle specificità della mia regione, le Marche, quindi collina, mare e montagna.
Arriva poi il trasferimento a Milano.
Una volta trasferitami a Milano ho deciso di dare forma in maniera più ordinata e tecnica a questa mia passione, di conseguenza mi sono iscritta a una scuola di fotografia iscrivendomi a un corso base, intermedio e avanzato di fotografia, di camera oscura e ho iniziato a scattare in analogico.
Onestamente, ad oggi, non riesco a scattare in digitale, preferisco l’analogico, questa inversione di marcia è avvenuta nel 2018, questo mondo, a mio avviso, andava mantenuto perché richiama alla concentrazione, alla concettualizzazione e alla riflessione: se scattiamo in digitale abbiamo molte possibilità e tentativi che facilitano la riuscita della scatto, ma non portano a pensare perché, tra le innumerevoli possibilità, prima o poi lo scatto perfetto arriva.
So che lei scatta in acqua…
Sì, ho fatto anche un corso di fotografia in acqua, sono stata a nord della Spagna con la mia docente, Silvia Potenza, che mi ha introdotto a questa realtà, dinamica e difficile…la fotografia in acqua è un imprevisto, continuo.
Tutto avviene velocemente, le forme, i corpi e i colori cambiano, quindi occorre essere preparati e reattivi.
Èstata un’esperienza formativa che mi ha abituato a perdere il controllo. il fotografo, infatti, vuole avere il controllo su quella che è la produzione dell’immagine.
Nel momento in cui in acqua il controllo è impossibile e occorre strutturarsi di conseguenza.
Quando si trova in questa situazione, come riesce a gestire, non solo il movimento del suo corpo ma anche il movimento del soggetto che va ad immortalare?
Diciamo che si procede un po’ per tentativi, occorre dare istruzioni, in via preliminare al soggetto che, a sua volta, prova a seguirmi nelle indicazioni.
Le faccio un esempio: siamo a pelo d’acqua e dico alla persona in questione di immergersi e fare un determinato movimento perché è questo che voglio comunicare.
Quindi, proviamo a coordinarci prima dello scatto, quanto poi accade, soprattutto con l’analogico, è una continua sorpresa.
L’aspetto affascinante della fotografia in acqua è che, per quanto provi a controllarla, quando vedi lo scatto eseguito, è una sorpresa che combacia con ciò che volevi dire.
Èuna prefigurazione dell’immagine che però apre una serie di possibilità postume.
Nel suo lavoro è impossibile non notare un forte legame con la psicologia. Parliamone.
Certo.
Con la fotografia in acqua ho terminato il mio percorso di formazione scolastico, tecnico, e ho iniziato a lavorare a diversi progetti, l’ultimo dei quali è un libro fotografico sugli attacchi di panico, “Pandemonio”.
Ho sofferto di attacchi di panico per anni e lo strumento fotografico è stato il mezzo per affrontare questo disturbo, una forma espressiva.
Tramite le immagini che ho prodotto e i soggetti che ho incontrato ho trovato la condizione di rispecchiamento in quelle che erano le loro e le mie emozioni, storie che, per quanto diverse, riportavano alla mia storia. In questo scambio continuo sono riuscita a sublimare il disturbo da panico e fare un grosso lavoro su di me.
Con “Pandemonio” e con il supporto di un percorso di psicoterapia, non ho più sofferto di attacchi di panico.
Questa esperienza mi ha portato a intraprendere gli studi in psicologia, un vecchio sogno nel cassetto, per una seconda laurea.
L’obiettivo finale è coniugare fotografia e psicologia… sto sperimentando la congiunzione tra questi due mondi.
Non dobbiamo smettere di scoprirci e la conoscenza del Sé è importante, per tutti.
Non credo a coloro che dicono: “Io sono fatta così”.
Siamo tutti in continuo movimento..
In continua evoluzione..
Bravissima, ci muoviamo lungo un continuum che ci porta da un polo opposto all’altro in un continuo tentativo di scoperta.
Facciamo spesso l’errore di pensare di essere arrivati e di non poter essere altro.
La verità, invece, è che possiamo essere altro.
Oltrepasso gli schemi: ho un percorso simile al suo.
Arrivo da ventiquattro anni di DCA, anoressia, nello specifico. La mia psicoterapeuta era specializzata in psicodramma. Importante per me è stata la scrittura. Scrivendo curatele per gli artisti, ad esempio, trovo risvolti psicologici e lavoro su di me.
Esatto, il discorso del rispecchiamento: guardarsi attraverso l’altro e trovare quella parte di noi che, forse, avevamo rimosso.
Così ci evolviamo. Mi sento molto vicina a lei, ho avuto un periodo nel quale ho sofferto di DCA, anoressia e bulimia, è stato il periodo che ha preceduto lo svilupparsi di attacchi di panico e dopo un bel lavoro in ambito terapeutico sono riuscita ad andare oltre, ecco. Tengo questi periodi con me perché mi compongono e raccontano gli sforzi che ho fatto per trovarmi. Tutto ciò fa parte di me e scollandoci dai nostri pezzetti rischiamo di perderci.
Se riusciamo a fare entrare in connessione i pezzetti del puzzle siamo sulla strada giusta.
Mettere insieme questi tasselli porta a trovare la chiave per giungere, poi, all’origine della problematica.
Un’origine che non deve segnare un qualcosa di irremovibile, un’origine che può essere tradotta con quelle che sono le nostre attuali lenti.
Dico lenti perché questa metafora mi piace tantissimo. Noi indossiamo le lenti che vogliamo, abbiamo potere decisionale su quelle che sono le nostre rappresentazioni odierne e del passato.
Ogni evento può essere rivisto da queste lenti e potenziato e trasformato, anche l’evento negativo raccontato dal mio “Pandemonio” può essere trasformato in qualcosa di positivo, perché l’attacco di panico che è mostruoso e ci fa provare la sensazione di morte, allo stesso tempo, ci dice che qualcosa non va.
È un sintomo di qualcosa nascosto sotto a un tappeto che ci ha fatto male.
Effettivamente, ciò che in molti non hanno capito è che tanto un disturbo alimentare, quanto un attacco di panico altro non sono che la manifestazione di un disagio nella sua materialità.
Quello che si presenta all’altro è la punta di un iceberg al di sotto del quale regna un mondo.
Sì, laddove la psiche tende a rimuovere, il corpo ricorda, perché quest’ultimo non dimentica e porta i segni di quelle che sono le nostre problematiche psicologiche, non amo parlare di disturbo psicologico, non lo vedo come una malattia anzi, sono del parere che se, dal punto di vista psicologico, qualcosa non funziona, lo possiamo guardare sotto altri aspetti, non deve essere uno stigma, un’etichetta.
Oggi si tende a non dare importanza agli aspetti psicologici: io mi sento autorizzata a stare male fisicamente e a mettermi in malattia perché ho febbre o raffreddore, ma non mi sento autorizzata a stare male psicologicamente e andare da uno psicoterapeuta perché altrimenti vengo etichettata come “la problematica”.
Non è così, io ho il diritto di stare male psicologicamente.
Il concetto è: come si ammala il corpo, si ammala la mente e nulla cambia.
Brava. Quindi, non facciamo lo sbaglio di considerare, come fece Cartesio, le due cose separatamente.
La mente, il cervello è un organo che fa parte del nostro corpo e manda input a tutti i sistemi periferici.
Con l’attacco di panico, abbiamo manifestazioni a livello cardiovascolare, frequenza cardiaca aumentata, manifestazioni nervose come perdita della sensibilità degli arti… i cosiddetti formicolii. Questi sono tutti input che arrivano dal cervello, hanno consistenza fisiologica, non sono “finti”, “inventati”, come sento spesso dire,, sono un vero impatto sul corpo. Corpo e mente sono collegati.
La mente fa da “capo”.
Torno, ancora, sul concetto di integrazione tra le parti.
È tutto una ripercussione, purtroppo o per fortuna, dato che non diamo il giusto peso agli aspetti psicologici, il corpo ci ricorda che questi ultimi sono importanti e lui diviene portavoce di quanto accade nella mente.
In merito a questo discorso, volendo, ci si può girare intorno, ma non è il nostro caso.
A questo punto, per coloro che ci leggeranno, le chiedo: come rappresenterebbe un attacco di panico con i suoi sintomi? Lo descriva attraverso uno scatto fotografico.
I sintomi, come saprà, possono essere differenti. In “Pandemonio” racconto parti della sintomatologia dell’attacco di panico.
Sicuramente, l’immagine più rappresentativa e funzionale è quella che ho utilizzato per la copertina.
Rappresento la paura, il volto è preso a metà e fuori esce da un buco nero perché intorno non c’è un confine che indica che c’è qualcosa, c’è solo una sensazione di vuoto che invade, ed è il vuoto di aver perso la trama che ci racconta.
Quando abbiamo un attacco di panico la sensazione principale è la derealizzazione. Derealizzando ci sentiamo come se non avessimo più radici storiche e transgenerazionali, fluttuanti in un vuoto nuovo che ci fa paura, che non è definito: noi siamo scollati dall’immagine della rappresentazione di noi stessi a cui, fino a quel momento, eravamo abituati.
Per questo l’attacco di panico segna un punto di non ritorno, traumatico, ma che ti intima a cambiare la solfa, non puoi tornare indietro. Ti sta chiedendo di dare ascolto ai tuoi veri bisogni, quelli che tu hai messo da parte… lui sarà il tuo nuovo nemico-amico che ti sta comunicando qualcosa che tu dovresti prendere al volo e, se non lo cogli, questa sarà la tua sensazione da qui in avanti.
L’occhio spaventato, la bocca semi aperta, come se il soggetto avesse visto un mostro che coabita il suo spazio interiore che, fino a quell’istante ha ritenuto un mostro, ma che era solo una parte del Sé che doveva essere accettata, integrata e potenziata.
In un altro scatto, rappresento la dispnea, la mancanza di respiro, perché quando abbiamo un attacco di panico ci sentiamo costretti, c’è una chiusura nel diaframma che impedisce la comunicazione tra cervello e cuore.
Allacciandoci a quanto fino ad ora ci siamo dette: in che modo uno scatto trasmette emozioni al fruitore?
La fotografia innanzitutto, in quanto strumento artistico, è il potere dell’immediatezza.
È un’immagine che si differenzia da quella pittorica, con la fotografia possiamo mediare attraverso la post-produzione però ha un contatto più diretto con il soggetto e quando dico soggetto mi riferisco a persone e cose.
La fotografia è arte perché, comunque, io attraverso le mie lenti vedo il mondo, sì, esiste la mediazione, un tre piedi montato, un click. Noi, nei nostri scatti mettiamo tutto, la nostra rappresentazione di quello che vediamo.
C’è un’interpretazione da parte dell’autore. Questo è il primo punto.
Il secondo punto è che la fotografia, in quanto arte, può colpire emozioni e sensazioni nell’interlocutore perché ha il potere del rispecchiamento.Dal punto di vista introspettivo mi verrebbe da dire che ci sono rimandi a quelle che sono le nostre storie, indipendentemente, da elementi concreti.
Prima di concludere, c’è un messaggio che, insieme, potremmo lanciare circa la fragilità.
Certo, le fragilità sono la cosa più bella che abbiamo.
Soprattutto, non dobbiamo nasconderle perché fanno parte di noi.
Dobbiamo pensare che ci rendono umani… sono, veramente, la parte più bella di noi.
Nel momento in cui mi atteggio a corazza, a super donna, non dico niente.
Solo l’apertura può comunicare qualcosa.