Bussare alle porte, andare a cercare notizie. Intervista a Raffaella Fanelli, giornalista.
Chi è un cronista d’inchiesta? Giornalisticamente, come si segue un caso?
A raccontarci questo mondo, oggi, Raffaella Fanelli, giornalista e autrice di diversi libri tra i quali “La Strage Continua“, “La verità del Freddo“ e “Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni?”.
Un viaggio, quello odierno, che passa attraverso soddisfazioni, rabbia e delusioni.
Infine, una storia a rappresentare il lavoro di una vita: l’omicidio Mino Pecorelli.
Chi è un cronista d’inchiesta?
Un giornalista d’inchiesta punta a cercare la verità. A far luce su vicende nascoste o dimenticate. I giornalisti riportano la notizia, quello che è accaduto, mentre la sfida del giornalista d’inchiesta sta nello scoprire il perché… E lo fa cercando. Per spiegare questa figura parto dalla mia esperienza personale. Da una sfida chiamata Franco Freda. L’ho raggiunto ad Avellino, dove vive. Ho bussato alla sua porta e ho chiesto un’intervista. Sono stata fortunata perché, alla fine, quando ti trovi una giornalista alla porta, per quanto possa essere sorridente, non è mai piacevole. Assolto per mancanza di prove dall’accusa di aver organizzato, con Giovanni Ventura, la strage di piazza Fontana a Milano, l’84enne editore, ex terrorista, ha risposto a tutte le mie domande, anche a quelle più fastidiose. Da Freda ho saputo degli incontri tra Ventura e Mino Pecorelli, il giornalista ucciso il 20 marzo del 1979 a Roma. Ho scoperto che Pecorelli stava lavorando sulle stragi e che aveva raccolto un dossier sull’attività eversiva di Avanguardia Nazionale, il movimento di Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher.
Il giornalismo d’inchiesta è questo: andare a bussare alle porte, andare a cercare le notizie, di persona, sul posto. È un lavoro di ricerca e di verifica. Di riscontri. Per fare un’inchiesta ci vuole tempo, una disponibilità finanziaria che non tutte le testate hanno e poi ci vuole coraggio, quello che spesso manca a direttori ed editori.
Quali sono gli svantaggi e i vantaggi di essere una freelance, oggi, in Italia?
In passato si riusciva a lavorare bene e tanto. Negli ultimi cinque anni ho firmato due contratti a tempo determinato e uno come autrice in trasmissioni televisive che chiudono a giugno e spesso non riaprono a settembre! Oggi è praticamente impossibile ottenere un contratto giornalistico e la vita da freelance mi angoscia. Da un paio d’anni continuo a ripetere “è la mia ultima intervista… basta. Con questa chiudo” e poi mi ritrovo a cercare ancora. A scrivere ancora. Le tariffe sono basse, troppo basse. In Italia sono tantissimi gli iscritti all’Ordine. Tanti ad accettare compensi da fame pur di vedere il proprio nome pubblicato su media altisonanti. Bisognerebbe usarne meno, scegliere i migliori. Ma a lavorare sono freelance che costano poco e riempiono spazi. Il freelance viene sfruttato. E si lascia sfruttare. Viene pagato con mesi di ritardo e, spesso, il compenso pattuito neanche arriva. Perché resto a fare questo lavoro? Perché non riesco a uscirne… cercare la notizia per me è come una droga. Non riesco a smettere di guardare e ascoltare con gli occhi e le orecchie di un giornalista. Cerco. Inseguo. E continuo ad indignarmi. Quando la delusione per i no alle mie proposte e alle mie inchieste supererà la mia indignazione allora smetterò di scrivere.
Un’inchiesta, come inizia e come la si porta avanti, fino alla fine?
Intanto ci vuole tanta curiosità. Posso rispondere spiegando com’è partita la mia inchiesta su Pecorelli?
Certo, sono qui per questo.
Quello che io ho sempre fatto è intervistare.
Mi piace trovare le persone, inseguirle e convincerle a parlare… questo è successo anche con Maurizio Abbatino, il boss fondatore, insieme a Franco Giuseppucci, della Banda della Magliana.
Avevo deciso di cercare e trovare quest’uomo, è stato più forte di me, perché tutti lo davano per morto forse, perché avevano visto il film “Romanzo Criminale“ nel quale, nel finale, Kim Rossi Stuart muore.
Sapevo che avrei trovato risposte sui casi Moro, Pecorelli e su tante altre storie italiane.
Mi è costato tanto cercarlo, perché sono rimasta a Roma diversi mesi… lui, comunque, non abita lì, anche se nel libro “Le verità del Freddo“ ho scritto di averlo trovato alla Magliana.
Dopo il primo incontro, l’ho tempestato di telefonate e messaggi per due anni… per concludere: ha accettato di rilasciarmi l’intervista.
È stato questo complesso personaggio a portarti sulla strada di Mino Pecorelli?
A una domanda sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, Abbatino parlò di un incontro che c’era stato tra l’Onorevole Flaminio Piccoli della Democrazia Cristiana e i boss della Magliana durante i giorni del sequestro, di un incontro organizzato da Raffaele Cutolo, all’epoca latitante. Un’informazione che, stando alle dichiarazioni di Abbatino, fu riportata allo stesso Piccoli pochi giorni dopo, durante un incontro sul lungotevere, nei pressi di Ponte Marconi. Difficile immaginare l’onorevole accanto ai due boss fondatori della banda, Maurizio Abbatino e Franco Giuseppucci. Difficile pensare che i due criminali avrebbero potuto, con i loro uomini, liberare Moro. Nella frenetica ricerca di riscontri, fra faldoni ricchi di documenti e informazioni ho ritrovato un verbale di interrogatorio di Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Era infilato in uno dei tanti fascicoli intestati al sequestro e all’omicidio dell’onorevole Aldo Moro. In cima a quel verbale c’era il nome di Mino Pecorelli.
Cosa riportava esattamente quel verbale?
Riportava le dichiarazioni di Adriano Tilgher, fondatore con Stefano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale, su un presunto ricatto di Domenico Magnetta, altro avanguardista che, stando al verbale di Vinciguerra, avrebbe detenuto le armi del gruppo, inclusa la pistola usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli. Magnetta che è poi la persona arrestata con Massimo Carminati nel 1981 avrebbe ricattato i vertici di Avanguardia perché lo aiutassero ad uscire dal carcere. In caso contrario avrebbe tirato fuori la pistola usata per uccidere Pecorelli. Il verbale è del 27 marzo 1992 e ad interrogare Vinciguerra, all’epoca detenuto nel carcere di Parma, è il giudice Guido Salvini. I fatti raccontati si riferiscono a dieci anni prima, al novembre del 1982. Tutti gli elementi e le date riportate da Vinciguerra in quel verbale corrispondono: Vinciguerra era detenuto nella stessa cella di Adriano Tilgher. Erano amici, camerati, si conoscevano da anni. Quindi ci sta che Tilgher parlasse del “problema Magnetta” con Vinciguerra. È importante dire che tutte le dichiarazioni di Vinciguerra sono state corroborate dalle indagini del giudice Guido Salvini, che Vinciguerra non è un collaboratore di giustizia e che non ha mai cercato sconti di pena. Mai benefici. Vinciguerra non ha mai mentito.
Quando si trova ad intervistare personaggi ambigui, come riesce a mantenere lucidità? È possibile rimanere imparziali?
Io ho intervistato solo criminali..
Proprio per questo le sto ponendo questa domanda.
Per me è molto più difficile intervistare i familiari delle vittime. E’ faticoso, doloroso.
Sono una spugna, assorbo le emozioni di chi mi sta di fronte e trovarmi davanti al dolore di una madre per me è dura.
È più facile intervistare un assassino. Dei familiari delle vittime si può riportare il dolore, raccontarne la storia, il ricordo del loro caro e il lutto, ma non sono loro a conoscere la verità. Sono gli assassini a conoscerla.
Quali pensa siano i principali problemi che oggi affliggono il giornalismo italiano?
Contratti precari e compensi bassi hanno indebolito il giornalismo e i giornalisti italiani. Se prima di scrivere ti chiedi “ne vale la pena?” allora capisci che siamo alla fine. Vedersi piovere addosso querele o richieste di risarcimento danni ti fa passare la voglia di denunciare. Di informare. Ormai il modo più efficace per delegittimare un giornalista, per fermarlo, è la querela.
Lei è stata querelata?
Tantissime volte. Anche da un serial killer, da Marco Bergamo. Querele assurde e tutte archiviate. Tranne una, quella di Silvia Signorelli, la figlia di Paolo Signorelli, condannato in via definitiva per associazione sovversiva e banda armata. Dopo una querela arrivata a Milano e archiviata, la mannaia si è ripresentata a Verona. Dove sono stata rinviata a giudizio per la stessa intervista, quella a Vincenzo Vinciguerra. Un’intervista che ha permesso la riapertura della indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli. Che è finita nella sentenza che a Bologna ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini. Per le sue dichiarazioni, Vinciguerra è stato ritenuto un teste importante nel processo ai mandanti della strage alla stazione. Eppure, a Verona, un altro giudice ha deciso per il mio rinvio a giudizio. Verona, città storicamente nera. Secondo quel tribunale avrei leso la memoria e la rispettabilità di Paolo Signorelli, ripeto: condannato in via definitiva per associazione sovversiva e banda armata. Una sorta di persecuzione, quella di Silvia Signorelli, prima a Milano dove ha pure presentato opposizione all’archiviazione e poi a Verona… chissà, magari c’è dell’altro. O qualcun altro.
È un’intuizione la sua?
Un dubbio…
Nel corso della sua carriera, le è mai capitato che la ragione le dicesse: questa è la strada giusta. Ma poi ciò che mancava per confermare il suo pensiero, fosse quella prova, materiale, che avrebbe potuto cambiare uno scenario? E che avrebbe confermato quanto lei pensava?
Tutte le volte che ho avuto un’intuizione ho cercato prove che andassero a confermarla. È una sorta di lavoro di inchiesta autonomo, ma a malincuore dico che spesso è inutile se non trova il coraggio di un magistrato. Perché il giornalista può arrivare prima, può cercare e anche trovare le prove ma se chi indaga nelle procure non ha il coraggio di un rinvio a giudizio, tutto è stato inutile. Sono i giudici a scrivere le sentenze.
Foto Raffaella Fanelli Silvio Sommariva