“Attraverso le immagini mi resi conto che la fotografia poteva contribuire a formare le coscienze”. Intervista a Tony Gentile, fotogiornalista.
Quello odierno è un viaggio accompagnata da Tony Gentile, fotogiornalista e autore dell’emblematico scatto che immortala Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un momento di spensieratezza, un viaggio attraverso il decorrere del tempo che ha condotto a cambiamenti e nuove consapevolezze.
Un cammino fatto di emozioni che raccontano tanto l’uomo quanto il professionista.
Partiamo dal suo scatto più noto, quello che immortala Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme. Come nasce?
Occorre dire che questo scatto va contestualizzato in un momento complicato della vita di Palermo.
Difatti, un paio di settimane prima della realizzazione della foto era stato ucciso Salvo Lima, in quel momento parlamentare europeo e rappresentante della Democrazia Cristiana a Palermo, di quell’ala della Democrazia Cristiana che faceva riferimento ad Andreotti.
Quindi, questa è la contestualizzazione politica.
Salvo Lima era anche garante degli interessi della mafia nella vita politica.
Nel 1992 Lima venne ucciso da Totò Riina perché non era riuscito a mantenere le promesse fatte a Cosa Nostra. Un omicidio importantissimo, “eccellente” che scatenò una vera rivoluzione a Palermo in quanto non si capiva cosa stava per succedere, sebbene, esperti quali Falcone e Borsellino, lo sapevano.
Il 12 marzo, dunque, venne ucciso Salvo Lima e il 27 dello stesso mese, in preparazione alle elezioni a cui si era candidato Giuseppe Ayala, caro amico e collega di Falcone e Borsellino, organizzarono un “evento” di propaganda politica, una tavola rotonda nella quale si parlava di relazioni tra mafia e politica in funzione anche di quanto avvenuto quindici giorni prima.
Quella serata era importante sia per quanto avrebbero detto Falcone, Borsellino e gli altri relatori, sia perché troppo vicina all’omicidio di Lima e i giornalisti volevano sapere da Falcone che, ormai, non viveva più a Palermo, cosa c’era dietro quell’omicidio, cosa rischiava di accadere a Palermo.
L’attenzione di stampa e fotografi (tra cui io) era concentrata in quel luogo.
Sapevamo che non era facile incontrare queste due figure insieme, seppur protagonisti indiscussi delle cronache giudiziarie e politiche.
Inoltre, Falcone era a Roma, di conseguenza era già entrato in qualche modo in politica.
Per chi come me faceva cronaca, quel momento, quella notizia era davvero importante.
Mi recai a quell’incontro nella speranza e nell’idea che potesse venire fuori qualche foto interessante e utile per giornali e testate nazionali con cui, in quel momento, collaboravo.
In quel triste e monotono scenario dove c’era un tavolo, persone che parlano, dove non era facile realizzare foto spontanee e vere, non ho fatto altro che attendere che succedesse qualcosa in grado di rendere un’immagine meno noiosa.
A mio avviso, una delle caratteristiche fondamentali di un fotografo è quella di intuire quanto sta per succedere e non aspettarlo passivamente: ho avuto questa intuizione quando ho visto avvicinarsi Falcone a Borsellino per dirgli qualcosa.
Questo mi ha portato a muovermi dalla posizione in cui stavo per sistemarmi davanti al tavolo dove si trovavano loro, in tal modo, sono riuscito a riprendere una scena di intimità tra due amici che si scambiavano una battuta divertente.
Tutto parte dal gesto, dall’intuizione, dal capire che qualcosa sta per accadere: tutto ciò mette in moto l’azione del fotografo.
Occorre, quindi, posizionarsi nel miglior modo possibile affinché l’essenza dell’azione venga rappresentata.
Ecco, cosa ho fatto la sera del 27 marzo 1992.
Come definirebbe, allora, l’intuizione?
L’intuizione è immaginare che qualcosa sta per succedere, secondo me, anticipare nella tua mente il gesto e l’azione che sta per concretizzarsi.
Ansel Adams la chiamava previsualizzazione.
Egli immaginava uno scenario, un paesaggio in un determinato modo e poi lavorare in maniera tecnica per portare la fotografia ad essere come lui l’aveva immaginata.
Nel reportage, nell’azione, c’è qualcosa che ti spinge a capire prima quello che sta per accadere.
Banalmente: se io, adesso, sono davanti a una scena larga e vedo a distanza un signore con un cane che sta passeggiando, ma lo vedo già cinquanta, cento metri prima e intuisco che quel signore sta per passare da uno spazio in cui si può costruire, materializzare una foto interessante, io l’ho visto prima.
Ho immaginato che quel signore passerà da quel punto e scatterò una foto che metterà in relazione sfondo e primo piano con soggetto e cane.
L’ho visto prima, poi, magari, il signore ad un certo punto si ferma e cambia strada non passando più da quel determinato punto facendo venire meno quello che io avevo immaginato.
Intuizione è immaginare che qualcosa sta per avvenire, che un’azione si muove per comporre una determinata scena per potarmi, infine, a scattare la foto.
Penso che questo sia quanto un buon fotografo dovrebbe saper fare. Molti fotografi hanno quest’intuizione.
Secondo lei, l’intuizione è innata e si sviluppa con la pratica?
Io non l’ho studiata.
So che il mestiere aiuta molto, la pratica, l’esercizio, l’osservazione… l’osservazione è alla base di un buon fotografo e di un buon narratore per immagini.
Molto spesso, succede questo: si va a coprire un evento e si immagina già quale potrebbe essere la foto. Quando si fa cronaca i giornali non pubblicano cinquanta fotografie, in prima pagina ne pubblicano una e, quindi, ci si abitua a cercare la sintesi, è necessario sintetizzare molto.
Semplifico tornando allo scatto da cui siamo partiti: quella sera Falcone arrivò in ritardo e si sedette su una sedia lasciata apposta per lui accanto a Borsellino.
Se si fosse seduto lontano da Borsellino, qualsiasi mio pensiero precedente di fotografarli insieme si sarebbe azzerato e io non avrei fatto niente.
Io mi ero recato in quel posto per realizzare un certo tipo di foto.
Nella realtà non sempre il pensiero si concretizza.
Si mette in moto la propria immaginazione ma non è detto che questa si trasformi in realtà.
Sì, sicuramente c’è il talento ma anche molto mestiere.
Perché ha scelto la via del fotogiornalismo?
Fin da piccolo mi ha sempre appassionato la fotografia come mestiere.
Un mio lontano parente faceva il fotografo, sono cresciuto in una famiglia dove il fotografo era una figura istituzionale, parte integrante di cerimonie importanti: il giorno del mio compleanno veniva il fotografo a casa e l’ho sempre visto come una figura fondamentale.
All’inizio la mia passione per la fotografia era legata all’oggetto, allo strumento e al mestiere.
Negli anni del liceo, iniziai a frequentare il mondo della politica (a metà anni 70’ era una cosa diffusissima), affiancandomi a un certo mondo della politica e leggendo alcuni giornali compresi il potere della fotografia.
Mi formai, in particolare, attraverso alle fotografie di Letizia Battaglia e Franco Zecchin che venivano pubblicate sul giornale “L’Ora”.
Loro sono stati il mio primo approccio a quel mondo.
Ero un liceale e partecipavo alle manifestazioni contro la mafia e contro la guerra, perché una volta si facevano le manifestazioni contro la guerra, adesso non più.
Adesso, purtroppo, è un po’ più complicato. Ti dicono se sei filo-israeliano partecipi alla manifestazione pro Israele, se sei filo palestinese partecipi a quella pro Palestina. Insomma, siamo allo stadio.
Adesso c’è la tifoseria, c’è il bianco o il nero, non ci sono le mezze stagioni, se non sei con me sei contro di me.
Questo è il problema della società odierna.
Comunque, sta di fatto, che non vedo grandi movimenti di studenti che, in generale, manifestano contro la guerra, cioè lo vedo raramente.
Ai miei tempi si faceva molta politica e punto di riferimento della politica che frequentavo io era il giornale “L’ora” ricco di fotografie di Franco Zecchin e Letizia Battaglia.
Attraverso le loro immagini mi resi conto che la fotografia poteva aiutare a formare le coscienze, aiutare lo sviluppo di una coscienza critica nei giovani come me.
Prendo posizione nella mia vita di ragazzino che poi cresce seguendo la fotografia di questi due professionisti che iniziai ad apprezzare non solo per le foto che facevano e per il loro impegno civile, ma anche per la loro fisicità e per il loro modo di muoversi.
Ho un ricordo molto bello ed entusiasmante di queste persone grazie alle quali ho compreso che la fotografia è uno strumento che non cancella guerre o mafia, ma sensibilizza la gente a capire da che parte stare.
Quindi, io mi trovai a fare una scelta di vita ovvero se stare dalla parte della mafia o no, grazie anche alla fotografia.
La cosa più importante del fotogiornalismo è riuscire a formare quel senso critico che porti a scegliere da che parte stare e io l’ho vissuto sulla mia pelle, da ragazzino.
Per mezzo di questo mio famoso scatto ho vissuto tutto ciò anche professionalmente perché quella foto è diventata, o meglio, quei due personaggi, grazie anche alla mia fotografia, sono diventati simbolo del riscatto, della ribellione e di tutte le cose belle che possiamo immaginare legate al mondo della ribellione alla mafia.
Non voglio parlare di antimafia perché è una parola che non mi piace molto, preferisco parlare di ribellione rispetto alla cultura mafiosa.
Con quello che ho subito sulla mia pelle e il mio crescere attraverso la fotografia, forse, ho contribuito a trasmetterlo anche ad altri giovani e altre persone che sono cresciute all’ombra di Falcone e Borsellino e che poi sono diventati anch’essi magistrati, avvocati o persone per bene che hanno denunciato la mafia o chi chiedeva il pizzo.
Da quanto mi sta dicendo comprendo che ha visto cambiare Palermo.
Approfondiamo questo punto.
Palermo è cambiata tantissimo, a volte in meglio a volte in peggio.
Posto che la mafia esiste ancora e continua a fare i propri affari con strategie diverse rispetto agli anni 90’, la città è cambiata, è cambiata la sensibilità di molte persone che denunciano mentre prima non si denunciava.
Adesso di mafia se ne parla e noi ne stiamo parlando, mentre negli anni 70’ non se ne parlava.
All’interno di nuclei famigliari parlarne era un tabù, era rarissimo trovare contesti famigliari in cui si poteva liberamente affrontare l’argomento, chi ne parlava era considerato un pazzo scatenato, un terrorista come Peppino Impastato.
È cambiato tantissimo e in maniera molto positiva.
Questo ha fatto modificare strategia anche alla mafia e il metodo, folle, che aveva adottato Totò Riina non è stato più utilizzato: tutti, tranne lui, avevano compreso che tali modalità d’azione lo avrebbero portato alla rovina, lo aveva capito anche Messina Denaro.
Le strategie violente furono, dunque, messe al bando ma non gli interessi criminali, di corruzione e di qualunque cosa potesse portare a fare soldi e accumulare potere.
Ancora, oggi, l’interesse della mafia è assolutamente intatto.
C’è comunque una cultura mafiosa di base, su cose piccole, che non riguardano l’associazione mafiosa e la criminalità, sono piccolezze che, magari, non si trovano solo a Palermo basti pensare all’arroganza del parcheggiatore abusivo che chiede i soldi per forza, l’arroganza di coloro che parcheggiano sulle strisce pedonali o nei posti riservati ai disabili.
A Palermo le percepisco diversamente e quando vi ritorno vedo una specie di nebbia che viaggia bassa di cui non ci siamo liberati, veramente, fino in fondo.
Perché, non ci si rende conto che questi atteggiamenti, per quanto piccoli, richiamano a quella sottocultura?
È difficile rispondere a questa domanda.
Vado sempre a Palermo con immenso piacere, dopo poche ore me ne pento.
Mi trovo innanzi alla “Grande Bellezza” (per parafrasare un film) del paesaggio, della storia e della cultura di quei posti e poi mi trovo a scontrarmi contro questa sottocultura, non riesco a spiegarmi perché… forse, per potere, soldi, povertà culturale.
In Sicilia noti che non sei in altre parti d’Italia, non si vive con lo stesso stato d’animo che si vive al Nord, la differenza la si trova anche quando si prende un treno.
Se da Roma devo andare a Milano, in meno di tre ore ci arrivo… non posso impiegare otto ore per percorrere il tratto Palermo- Ragusa.
Questo significa che io siciliano non sono considerato come il cittadino del Nord Italia, perché gli strumenti che noi abbiamo a disposizione non sono gli stessi.
Questa, secondo me, è una delle condizioni che ci fa sentire diversi e, in qualche modo, autorizzati a crearci un nostro mondo, una nostra sub cultura, un nostro potere, una nostra arroganza.
Se non si ha lo Stato che aiuta, ci sono altre forme d’aiuto… tutto ciò, anche nelle piccole e nelle grandi cose, ha determinato e determina, ancora oggi, la sub cultura mafiosa.
Lei non è conosciuto solo per quello scatto emblematico. Ha fatto altro, molto altro.
Cosa ha voluto raccontarci con le sue fotografie?
Immaginare che io abbia voluto raccontare qualcosa per mezzo delle mie fotografie sarebbe un po’ presuntuoso da parte mia.
Io raccontavo quello che succedeva.
Ho sempre amato questo modo rapido di lavorare tipico della fotografia legata alla cronaca e all’attualità.
Tra i miei fotografi preferiti c’è Weegee fotografo di cronaca americana che passava da uno scenario all’altro, da un cadavere all’altro, che stava sulla strada a raccontare la vita e che era veloce nel raccontare le storie, che cambiava tema in modo repentino, tutto ciò mi affascinava come mi affascinavano Franco e Letizia per il loro modo di muoversi.
Ho iniziato in Sicilia e ho avuto anche la fortuna di lavorare per una delle più grosse agenzie di stampa internazionali dove ho fatto per una vita intera questo tipo di lavoro, spostando l’asticella, coprendo storie, fatti e personaggi che non avevano più solo interesse locale come quando stavo a Palermo, ma anche internazionale e pubblicati su giornali internazionali.
Le storie che raccontavo, dunque, erano di respiro più ampio e mi davano la possibilità di dare maggiore visibilità al mio lavoro.
Per me è stata la realizzazione di un sogno, il raggiungimento del mio obiettivo: vedere le mie foto pubblicate si giornali thailandesi, americani o brasiliani era quello che desideravo fare e lo facevo coprendo storie.
Non c’era necessariamente l’intenzione da parte mia di raccontare qualcosa di particolare per ogni storia che coprivo, volevo semplicemente raccontare quella specifica storia.
Facevo foto che finivano sui giornali e, siccome, la maggior parte della gente si informa attraverso i giornali e vede e conosce ciò che succede attraverso i giornali, il fotogiornalismo è un fotogiornalismo, popolare, di massa che entra nelle case di tutti, non è un mondo minore della fotografia è uno dei mondi principali… questa era la cosa che a me, principalmente, piaceva.
Certo, non è vietato a nessuno e non l’ha impedito a me, di avere argomenti che si preferisce trattare.
Tra i temi che mi interessano maggiormente ci sono quelli legati al sociale.
Il discorso immigrazione, mi ha rapito da sempre, anche se non l’ho seguito vivendo ad esempio per lunghi periodi in Africa, lo seguivo saltuariamente, in base a quelle che erano le notizie.
Ho avuto modo di occuparmene direttamente sin dai primi sbarchi a Lampedusa nei primi anni 90’ quando si cominciò a parlare di Lampedusa e poi viaggiando nel mediterraneo con le ONG in cerca di donne e uomini da salvare dalla morte sicura, ho raccontato lo “Ius soli”, ovvero il diritto per i bambini figli di migranti nati in Italia di essere considerati italiani. In sintesi ho raccontavo qualcosa in cui credevo profondamente avendo l’opportunità di incontrare, conoscere e raccontare tantissime storie e persone interessanti. Perché dietro ad una storia c’è sempre un essere umano che la racconta.
In questi ultimi anni, sono stato molto coinvolto dal valore di memoria che ha la fotografia.
La fotografia rappresenta la nostra storia, individuale e collettiva, per tale ragione sono stato felice di lavorare per Reuters che mi ha dato la possibilità di seguire, tra le altre cose, anche il mondo del Vaticano.
Nel mio percorso professionale, infatti, ho avuto modo di incrociare tre Papi.
Mentre negli anni di Giovanni Paolo II alcuni fotografi hanno lavorato per più di vent’anni solo su di lui e poi, magari, sono andati in pensione o hanno cambiato mestiere, io ho raccontato la storia di tre uomini completamente diversi tra loro attraverso le mie foto.
Cosa accade, di conseguenza, quando scatta una fotografia?
A me succede che quando fotografo qualcosa oltre a immaginarla ora, nel presente, la sposto nel futuro e domando a me stesso se questa foto tra quindici o vent’anni avrà ancora un senso.
La risposta molto spesso è: sì, avrà un senso.
Quando ho accettato di lavorare per la Reuters avevo la certezza di scattare e mettere insieme fotografie che a distanza di anni avrebbero avuto un significato diverso.
Il valore della memoria e dell’archivio per me sono due aspetti fondamentali della fotografia in genere e soprattutto di quella che ho frequentato io per oltre 30 anni.
La fotografia di oggi non è più quella di ieri.
Ha subito, anch’essa, una sua metamorfosi. Io arrivo dal tempo dei rullini.
La fotografia è cambiata dal punto di vista tecnico e sotto certi punti di vista per me è stata una fortuna.
Ho vissuto un’epoca (35 anni) in cui ci sono state delle grandissime trasformazioni dal punto di vista professionale.
Non sono un nostalgico e ritengo, senza ombra di dubbio, che tutte le trasformazioni tecnologiche che ci sono state sono sicuramente un passo avanti per il fotografo che ha fatto il lavoro che ho fatto io e per la fotografia.
Insomma, sarebbe come dire non ho la lavatrice a casa perché mi piace lavare a mano, non ho il frigorifero perché preferisco tenere l’acqua nel ghiaccio.
Il mondo e la tecnologia vanno avanti e quello che abbiamo serve a migliorare il nostro lavoro.
In questa fase storica abbiamo avuto la trasformazione dall’analogico a digitale, che trovo una cosa bellissima perché mi ha permesso di lavorare in modo migliore seppur perdendo la qualità dell’immagine perché questo processo è partito da basi basse per arrivare a cinquanta milioni di pixel, cose sconvolgenti.
Le fotografie che facevamo con le prime macchine digitali avevano una qualità abbastanza bassa, però era un processo che stava andando avanti e ha portato oggi a rinnovamenti incredibili e per certi aspetti irrinunciabili.
Io mi sono sempre trovato bene per il lavoro che facevo a cavalcare tutti i passaggi tecnologici che ci sono stati.
Per il resto la fotografia non è cambiata tanto, parlo del mio mondo, non voglio mischiare perché la fotografia è qualcosa di molto ampio con migliaia di sfaccettature.
Il fotogiornalismo di attualità non è cambiato tanto, sono cambiati i giornali, il modo in cui i media utilizzano le foto, il modo in cui i media hanno massacrato un mondo professionale… questo è cambiato tantissimo.
Una considerazione che facevo poco tempo fa con alcuni colleghi e con un noto ufficio stampa che ci ha portato a renderci conto che non ricevono più richieste di accredito da parte di giovani fotografi, ma soltanto dagli stessi soliti fotografi che prima o poi andranno in pensione e non ci sarà un ricambio generazionale.
Evidentemente, non è più produttivo fare questo tipo di mestiere, un tipo di mestiere con cui molti di noi ci siamo formati, siamo cresciuti e abbiamo costruito la nostra vita attuale. Questo è tristissimo.
In funzione di cosa sceglie il suo scatto?
Questa è la seconda caratteristica che devono avere i buoni fotografi di attualità, in particolare chi come me ha avuto a che fare con l’agenzia di stampa.
Occorre una grande capacità di scegliere, selezionare e capire qual è la foto giusta e di farlo velocemente.
Adesso che si scatta in digitale c’è una tendenza naturale a scattare molte foto, mentre prima con i rullini per un solo rullo si avevano a disposizione trentasei foto e tra quelle trentasei bisognava sceglierne due.
Due su trentasei è difficoltoso, due su mille è un po’ più complicato.
Allora, professionalmente, il mestiere porta ad imparare e ad affinare molto velocemente la capacità di scegliere la tua foto per quella determinata storia.
Per me tutto questo è stato abbastanza naturale, ho studiato e imparato prima attraverso l’esperienza del quotidiano poi osservando gli editors dell’agenzia di stampa, e grazie a tanto esercizio. Soprattutto lo si comprende in base alla conoscenza della storia che si sta per raccontare. Faccio un esempio: Qualche anno fa, quando ci fu lo scambio della campanella tra Enrico Letta e Matteo Renzi, l’uno primo ministro uscente e il secondo entrante, feci una foto che, per altro, mostro spesso durante i miei incontri con studenti o appassionati di fotografia.
Quel cambio di vertice fece scatenare una serie di polemiche.
Due esponenti dello stesso partito giungono al cambio del Primo Ministro, uno destituisce l’altro.
Nel momento in cui ci fu lo scambio della campanella Letta non guardò in faccia Renzi, si voltò dall’altra parte e restituì l’oggetto.
In questa sequenza di foto, questa era l’immagine che avrebbe raccontato la storia: un mancato sguardo.
Scegliere quella foto significa avere compreso la storia da raccontare, quello scatto racconta il processo politico avvenuto in quei giorni e non soltanto un momento di cronaca nel quale tutti i primi ministri abitualmente si scambiano la campanella.
Puoi scegliere la foto solo se hai consapevolezza di ciò che sta accadendo, il fotografo deve arrivare preparato rispetto alla storia che si deve raccontare.
Per concludere, le chiedo: cosa le lascia a livello personale uno scatto?
Uno scatto può lasciarti tante cose.
Dal punto di vista umano, sicuramente, la storia che quello scatto rappresenta.
Tornando al discorso migranti, ho fatto viaggi con le ONG e stare in alto mare due, tre settimane, un mese ti porta a vivere momenti di condivisione completa con persone che dedicano la propria vita a salvare le vita altrui e questo mi ha lasciato tantissimo soprattutto a livello umano. Una determinata fotografia è capace di ricordarti quella situazione ma soprattutto le persone che hai incontrato, le relazioni che hai intrecciato, i momenti critici o di gioia che hai vissuto.
Alcune fotografie ti entrano nella pelle per le storie e per tutto quello che hai vissuto legato a quell’immagine.
A volte, anche se la foto nessuno l’ha vista o non è mai stata pubblicata, riguardandola ti riporta a quei momenti, a quelle emozioni.
Sono le tue emozioni, è quella parte di te che hai messo nel tuo lavoro.
Sì, la fotografia lascia tantissimo, dentro… ricordi belli o brutti.
Quando l’Italia nel 2006 ha vinto i Mondiali ho seguito la nazionale dall’inizio: da quando sono partito sullo stesso aereo con cui viaggiava la squadra a quando siamo rientrati, nuovamente, insieme ma con in più la coppa del mondo.
Avere seguito tutta quell’avventura incredibile, indubbiamente, ti lascia delle emozioni: sei sul campo per fare il tuo lavoro, non devi farti prendere dall’entusiasmo e dall’euforia del tifoso, devi essere concentrato, allo stesso tempo sai che stai vivendo un’emozione unica che ti porterai dietro per tutta la vita e che potrai raccontare ai tuoi nipoti.
Questo è un mestiere che permette di vivere forti emozioni e che grazie al potere della fotografia, nonostante il passare del tempo, ritornano vive, sempre quando sfogli il tuo personale album fotografico.