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“La Brianza è la seconda provincia della Lombardia per colonizzazione di ‘ndrangheta dopo Milano”. Intervista a Roberto Beretta, Presidente Brianza SiCura.

Negli ultimi anni, in Brianza, abbiamo visto la ‘ndrangheta passare dallo stadio di semplice infiltrazione a radicamento.
L’ingente disponibilità di denaro liquido ha permesso all’organizzazione di inficiare l’economia legale.
Per fare un quadro della situazione e analizzare gli ingranaggi che si celano dietro tali meccanismi dialogo, oggi, con Roberto Beretta, presidente di Brianza SiCura.

Parlando di criminalità organizzata di stampo mafioso, qual è la situazione in Brianza? Territorio, peraltro, in cui sono nata e vivo attualmente.

Secondo i dati statistici derivanti dai ricercatori del Cross (Università Statale di Milano), la Brianza è la seconda provincia della Lombardia per colonizzazione di ‘ndrangheta dopo Milano.
E la Lombardia, nel suo complesso, è la seconda regione di ‘ndrangheta in Italia dopo la Calabria.
Quindi, secondo gli esperti, la nostra situazione non è più di semplice infiltrazione ma siamo in piena colonizzazione.
Ciò significa che la ‘ndrangheta non è più presente solo nei settori dell’economia criminale come lo spaccio di droga, il prestito a usura o l’estorsione, ma è entrata nell’economia legale grazie ai suoi ingenti capitali.

Quindi, parliamo di forte radicamento.

Esatto, è quello che ci dicono gli esperti sulla base di dati forniti sia da analisi di studi accademici, sia dalle inchieste fatte da forze dell’ordine e magistratura che in questi anni, in Brianza, sono state davvero tante.
Posso dire che, quasi settimanalmente, viene fuori un’inchiesta con arrestati e implicati che risiedono nella nostra provincia o, comunque, in Lombardia.

Oltre alla ‘ndrangheta, lei escluderebbe la presenza di altre organizzazioni che con essa vanno ad interfacciarsi? Mi riferisco a Cosa Nostra, Camorra o quant’altro.

No, escludere no.
Peraltro, è abbastanza conosciuta la presenza storica di nuclei di Camorra nella città di Monza.
Per quanto riguarda le altre mafie è recente l’ipotesi della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Milano di una larga intesa, di un’alleanza tra le tre mafie principali su Milano e hinterland per spartirsi gli affari.
È, dunque, molto probabile che quest’ipotesi, se confermata anche da processi e inchieste, interesserebbe anche la nostra Brianza.
La mafia vincente da noi, però, sappiamo tutti essere la ‘ndrangheta, come del resto lo è in larga parte d’Italia e non solo.

Circa il fenomeno della corruzione, cosa può dirmi?

Ci sono stati casi in Brianza.
Il punto è che, per provarla, ci vogliono denunce e segnalazioni che sono, ovviamente, molto scarse.
Stiamo parlando, infatti, di un reato in cui il beneficio è sia del corruttore che del corrotto, pertanto si capisce che è difficile trovare parti pronte a confessare, ammettere o a rivelare l’esistenza della corruzione.
D’altra parte ci sono inchieste da cui è abbastanza evidente l’esistenza di corruzione sia in ambito politico che dell’imprenditoria economica.

Imprenditoria economica.
In che modo, lo lascio spiegare a lei, le mafie inficiano l’economia legale? Ho l’impressione che questo meccanismo sia ancora poco chiaro.

Le mafie hanno molto denaro liquido disponibile subito e, anzi, lo devono impiegare, riciclare per utilizzarlo legalmente.
Questa forza economica va incontro alla domanda che il mercato presenta anche qua in Brianza.
Ad esempio, la domanda di avere credito: se un imprenditore non riesce ad avere prestiti dalla banca, si rivolge a questi “amici” che hanno disponibilità, il cui reale interesse però non è soltanto giungere a un ulteriore guadagno, ma impadronirsi dell’attività dello stesso imprenditore.
Altro fattore che facilita l’ingresso della ‘ndrangheta nell’economia è, sicuramente, lo stato di crisi e difficoltà di determinati settori. Pensiamo anche alla difficoltà del settore della ristorazione e dei bar durante la pandemia. In questo caso i proprietari avevano già alla porta un emissario della ‘ndrangheta pronto a rilevare l’attività al fine di esercitare la stessa funzione riciclando il denaro, controllando il territorio, ricevendo informazioni e avendo un ritorno di immagine positivo nei territori in cui l’organizzazione si è incistata.

Qual è, invece, lo stato di sequestro e confisca di beni nella nostra Brianza? A che punto siamo e come sono stati riutilizzati?

Ho fatto una recente visione della situazione, i dati sono pubblici e chiunque può vederli in tempo reale anche attraverso internet per mezzo dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati che è l’ente che tratta e distribuisce i beni confiscati.
Oggi in Brianza abbiamo 170 beni destinati, cioè che sono già stati dati o a organi dello Stato e forze dell’ordine o a Comuni che, a loro volta, li hanno affidati a cooperative sociali o enti del terzo settore. I comuni che ne hanno di più sono Desio, Seregno, Cesano Maderno e Muggiò.
Altri 270 sono in gestione, questo significa che l’Agenzia sta ancora trattando la loro liberazione o perché il relativo processo non è ancora terminato o perché ci sono gravami e ipoteche che al momento ne impediscono la destinazione. Questi ultimi, oltre ai Comuni che ho già citato, sono presenti in maniera consistente a Giussano, Carate, Seveso, Agrate, Monza e Macherio.
Nel totale insomma abbiamo quasi 500 beni confiscati o in via di confisca in Brianza.
È un numero di beni considerevole e tanti Comuni li stanno prendendo in dotazione.
Ad esempio, Seregno ha appena accettato un’intera palazzina con una decina di appartamenti e altrettanti garages per farne abitazioni sociali, cioè edilizia popolare agevolata.
Cesano Maderno ha avuto una pizzeria, un magazzino e una villa, tutti beni che rimetterà in circolo usandoli per il bene comune.

Ci sono casi in cui la pratica non è andata a buon fine?

Sì, recentemente Monza aveva accettato un terreno che, tra l’altro, è vicino al luogo in cui è stata sepolta una vittima innocente di ‘ndrangheta, Lea Garofalo, ma ha dovuto restituirlo perché il terreno era molto inquinato e il costo per la bonifica sarebbe stato proibitivo.
Muggiò, invece, aveva avuto la proposta di prendere in gestione un ex albergo che sarebbe stato molto interessante per usi sociali ma non ha avuto la possibilità di avere i fondi o trovare il gestore adatto  che lo mettesse a uso pubblico, quindi il bene è stato restituito.

Per mancanza di fondi, dunque, si blocca tutto?

Più che per mancanza di fondi (la Regione dispone di fondi dedicati), il motivo principale è che ci vuole un progetto e un ente che sia disposto non solo a riceverlo ma anche a gestirlo in modo economicamente sostenibile.
Le idee ci sono e le cose si possono fare, occorre però che anche la società civile e non solo le forze dell’ordine e la magistratura mettano il loro contributo.
Quello dei beni confiscati è un ramo in cui la società civile può e deve dire la sua.
Sono stato di recente a Vimercate a visitare una piccola ex fabbrica di lampadari, confiscata e presa dal Comune che ne farà un punto di accesso per la Sanità e i Servizi Sociali pubblici insieme all’Asst.
Le possibilità ci sono e questo è il momento in cui in Brianza sta arrivando la vera ondata di questi beni.
Un altro esempio virtuoso: a Giussano una cooperativa sociale ha preso in affidamento un bene confiscato che ha chiamato “Casanostra” e ne ha fatto un centro diurno per disabili.
Tantissime scolaresche lo visitano per vedere da una parte il lavoro sociale svolto, dall’altra per conoscere la storia di questo bene, comprendere il motivo per cui è stato confiscato e tastare il valore sociale di beni come questo.

Visto che siamo a tema: in cosa consiste la genialità della Legge Rognone-La Torre?

Partiamo da questo: l’Italia della legislatura antimafia per fortuna è all’avanguardia.
È vero: abbiamo esportato, purtroppo, la mafia un po’ in tutto il mondo, però dobbiamo avere anche l’orgoglio di dire che abbiamo avuto la capacità di reagire con leggi che vengono studiate, appunto, anche nel resto del mondo.
I principi espressi dalla legislatura a partire dal 1982, quindi dalla legge La Torre in poi, colpiscono le mafie nel denaro con confische di beni immobili e mobili;  isolano, inoltre, i boss mafiosi in quello che viene definito regime di carcere duro, un espedienti necessario affinché si interrompa la catena di comando mafiosa che, altrimenti,  in carceri normali sarebbe continuato.
Nel tempo la legislazione e, di conseguenza, la magistratura e i metodi di indagine si sono adeguati al continuo progresso e all’evoluzione che le mafie dimostrano.

Mara Cozzoli

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