“L’arte è terapeutica: porta fuori quello che c’è dentro e dentro quello che si incontra fuori”. Intervista a Martina Basconi, artista terapista
L’ Arte Terapeutica trae origine dalle arti terapie fiorite nel secolo scorso.
In questo particolare ramo del fenomeno artistico finalizzato al benessere della persona, l’accento viene posto sul ruolo del conduttore, sul fenomeno creativo e sul risultato finale del lavoro: l’operatore è in primis artista, profondo conoscitore della materia e delle tecniche creative.
Dialogo, oggi, con Martina Basconi, artista terapista.
Arte terapeutica. Cosa significa quest’espressione? Che differenza intercorre con l’arte terapia?
Iniziamo da questo: l’arte terapia include diverse metodologie, quella che abbraccio io, sia a livello teorico che pratico, parte dal presupposto che l’arte non cura ma è terapeutica, in quanto in essa è già insito un procedimento curativo poiché svolge un’azione maieutica nell’essere umano: porta fuori quello che c’è dentro e dentro quello che si incontra fuori attraverso l’atto trasformativo che avviene nel processo creativo.
A me piace dire che l’arte è vita in quanto noi individui siamo opere che nascono, appunto, da un processo creativo dove il corpo della donna ne è la casa. Cambiamo forma prima di venire alla luce e questo è possibile grazie ad una relazione di corpi che entrano in dialogo e si accompagnano con amore verso la vita.
Questo è anche ciò che accade nel processo che conduce alla creazione di un’opera d’arte: l’artista entra in relazione con la materia, la osserva, l’ascolta, ci dialoga fino a dargli nuova forma.
Tale percorso ha molteplici istanze terapeutiche per chi ne è protagonista.
Entriamo nel dettaglio del suo metodo.
Il metodo che applico nasce negli anni ’90 dalla ricerca dall’artista Tiziana Tacconi e dalla psicoanalista junghiana, Mariarosa Calabrese.
Nel 2004 la professoressa Tiziana Tacconi ha trasferito la sua ricerca nel progetto del Biennio di Terapeutica Artistica, condiviso con la professoressa Laura Tonani presso l’accademia di Brera ed in collaborazione con il Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pavia, enti nazionali ed internazionali e molteplici professionisti che hanno contribuito allo sviluppo delle pratiche teoriche e laboratoriali.
Il metodo viene portato nel mondo attraverso percorsi di creatività individuali e di gruppo.
Nel percorso individuale è il colore, l’indiscusso protagonista, in quanto con la sua simbologia archetipica permette di contattare il tessuto emozionale dell’individuo e ampliare lo sguardo interiore e verso il mondo circostante.
Nei percorsi di gruppo si privilegia il metodo dell’opera condivisa, dove ognuno porta la sua unicità creativa nell’atto del fare insieme e attraverso la guida dell’artista terapista come in un coro le singole voci vengono armonizzate in un progetto comune.
Cos’è un artista terapista?
Noi artisti terapisti siamo esperti nel linguaggio visivo, nasciamo come artisti e poi seguiamo una formazione di tutte le metodologie terapeutiche incluse nel processo di creazione e, conseguentemente, riusciamo a portare questo all’altro.
Abbiamo sperimentato, fatto esperienza prima noi e siamo in continua ricerca per poter costruire percorsi di creatività a misura di persona, contesto e possibilità.
Che diversità sussiste rispetto a un discorso portato avanti da uno psicoterapeuta?
Lo psicoterapeuta usa il linguaggio verbale nelle sue pratiche terapeutiche mentre gran parte degli arte terapeuti interpretano ciò che avviene nel processo creativo.
L’artista terapista è un visionario con metodo: possiede una conoscenza approfondita dei linguaggi e delle tecniche dell’arte visiva e parallelamente, conosce le istanze terapeutiche che ne conseguono.
Inoltre, l’artista terapista non si ferma alla creazione e all’interpretazione ma porta il soggetto alla realizzazione di opere d’arte individuali o condivise (se si parla di percorso di gruppo) fino ad una mostra conclusiva.
Nello specifico, in cosa consiste l’opera condivisa?
L’opera condivisa è un’opera che nasce grazie alla condivisione sinergica tra corpo, materia e dialogo con l’altro.
Porta nel nome e nella sua etimologia il suo significato: con-dividere, unito all’altro ma allo stesso tempo diviso nella sua individualità. La personalità creativa del singolo emerge nell’attività pratica finalizzata alla realizzazione di un’opera che coinvolge molte persone, protegge ed evidenzia quelle che sono le loro qualità per poi divenire parte di un tutto.
Si perde l’autoreferenzialità tipica del mondo dell’arte e si diviene co-attori nel processo creativo.
L’opera condivisa ha una grande potenza espressiva, estetica, terapeutica e sociale poiché attraverso l’altro si conoscono nuove parti di sé, tramite quest’ultima si raggiunge un obiettivo comune, si crea insieme senza perdere la propria individualità anzi, rafforzandola.
Il fatto che si arrivi all’esposizione delle opere, va ad incidere sull’auto stima?
Assolutamente, sì.
Chi partecipa ad un percorso d’arte terapeutica diviene protagonista non solo del processo creativo ma di ogni fase che porta alla realizzazione dell’opera fino alle pratiche d’installazione e all’esposizione pubblica del lavoro.
Ogni passo è guidato dall’artista terapista e dalla sua esperienza, ma chi partecipa impara a prendersi cura dall’inizio alla fine della sua creazione, porta il suo sguardo nel mondo attraverso la mostra conclusiva.
Diciamo che la protagonista è l’opera che trasferisce il valore a tutti coloro che l’hanno realizzata, sia ad ogni singolo che al gruppo, ma il vero valore che emerge è la condivisione che rafforza l’autostima e il valore di ognuno.
In quali ambiti viene applicata?
Intanto, possiamo definire l’arte terapeutica come quell’esperienza dell’artista terapista che ha deciso di continuare il suo impegno artistico oltre il periodo di studio del biennio di teoria e pratica della terapeutica artistica dell’Accademia di Belle Arti e si è dato come scopo quello di portare l’arte a tutti avvalendosi di metodologie e una ricerca che non si arresta, finalizzata a quella pratica dell’arte che investe la psiche per il raggiungimento di una condivisione sempre più estesa.
Per tanto si può applicare in tutti i contesti : negli ospedali, nelle scuole, nelle carceri, nei diversi luoghi di cura, ecc.. Un atelier in ospedale significa creare una nuova possibilità di vivere le cure mediche e produrre una rinnovata consapevolezza che può aiutare la via della guarigione.
Nei luoghi di recupero sociale l’arte e la creatività diventano la possibilità di un nuovo reinserimento sociale.
Nelle scuole e nei luoghi di formazione, portare un ‘educazione alla creatività sviluppa il pensiero critico, consolidando le competenze trasversali utili nell’apprendimento e nella formazione della propria individualità.
Può, inoltre, essere declinata nel privato a prescindere dalla presenza di una patologia di natura psichica poiché mette in atto un percorso personale di semina e raccolta per rinascere e ritrovare armonia.
Prima ha parlato di emozioni, in che modo l’arte terapeutica ne permette lo sviluppo?
Il linguaggio dell’arte attraverso gli archetipi del colore, della forma e della materia permette di esprimere il mondo interiore, di dar voce a ciò che spesso resta in silenzio di trasformare ciò che arriva dall’esterno e di dare nuova forma a ciò che appare informe.
L’arte concede la possibilità di mettere in dialogo autentico le mani e il cuore, dispiegando il tessuto emozionale passo dopo passo nel viaggio del processo creativo e nella relazione con la materia, un’entità altra da sé che fa da specchio.
Affinché tutto possa accadere e di conseguenza essere terapeutico ci vuole studio e metodo.
L’arte terapeutica non è improvvisazione considerando il tempo in cui si è sviluppata.
Il percorso di ricerca è ancora lungo e ricco ma grazie al fatto che ci siamo costituite nell’ associazione Kairos il nostro impegno è attivo e mentre sperimentiamo il metodo nel sociale ci apriamo al confronto e la nostra crescita di artiste terapiste diventa la nostra forza condivisa.
So che lei ha portato l’arte terapeutica in Africa. Parliamo di quest’esperienza.
Ho avuto la possibilità di portare un progetto di educazione alla creatività in Congo grazie ad AMKA, un’associazione non profit che opera a Lubumbashi dal 2001.
Due mesi intensi in cui ho partecipato alla realizzazione del programma educativo estivo rivolto alle scuole dei villaggi di Kanyaka, in collaborazione con l’equipe congolese e italiana. Grazie al supporto di tutti i volontari è stato portato il mio progetto in terra congolese: un percorso laboratoriale dove l’arte è stata la protagonista ed ha condotto grandi e piccoli verso l’espressività, l’inclusione e la conoscenza.
Il percorso è nato con obiettivi precisi: dare la possibilità di esperire i linguaggi dell’arte, portare nuove strategie educative; conoscere la potenza del processo creativo fino alla realizzazione di opere condivise per dare valore ad ogni singolo partecipante e contemporaneamente, mettere in dialogo diverse comunità.
Il mio intervento non è stato solo verso gli alunni, ma si è concluso con la conduzione di un corso di formazione pensato su misura per gli insegnanti di diverse realtà.
Il dialogo proficuo che è nato nelle giornate di formazione ha permesso la costruzione di un progetto sperimentale: portare un’ora d’arte nel programma didattico annuale che tutt’ora è in atto e seguo a distanza.
A lavoro concluso cos’ha riscontrato?
Per me quest’esperienza è stata altamente formativa.
Ero partita con un grande obiettivo ed è quello che, tutt’ora, voglio perseguire: portare l’arte dove non c’è, dove non vi è la possibilità di accedervi.
Non posso nascondere che portare l’arte in Africa è stato un grande paradosso in quanto i bisogni sono altri. Il Congo, dove mi sono recata, è un Paese dove una persona su cinque muore di fame, la malnutrizione è altissima e la sanità è quasi assente o meglio, per pochi. Eppure, anche in questi luoghi serve bellezza. Il valore della bellezza ha un valore terapeutico anche in queste situazioni.
È doveroso ricordare che l’arte è la prima forma di comunicazione con cui l’essere umano ha parlato su questa Terra e, di conseguenza, è portatrice di messaggi rivoluzionari.
Il soggetto che viene educato allo sviluppo della creatività diventa persona pensante anche in luoghi dove per secoli si è vissuto in pieno regime dittatoriale.
L’arte aiuta a costruire il pensiero critico e questo, a sua volta, può dare vita a una rivoluzione.
Educare all’arte e alla creatività permette di dare voce in tutti quei sistemi nel quale non ci sono voce e ascolto facendo emergere le diversità del singolo.
Per comprendere meglio, vi porto un esempio di un’attività: osservare e disegnare un albero non per quello che è sotto la sua forma prospettica ma per come lo si vede, ognuno con il proprio sguardo.
Lo stupore è nato al termine quando abbiamo messo in mostra tutti i disegni realizzati, in ogni elaborato c’era un albero di forma differente, un suo dettaglio, una trasformazione, eppure tutti hanno osservato lo stesso albero e avevano a disposizione un solo pennarello nero. Che cosa è emerso? Quando viene data la libertà di seguire il proprio punto di vista oltre le regole della rappresentazione standard emerge l’unicità del segno e le sue infinite possibilità espressive. Ognuno ha portato la sua personalità in tempi e spazi differenti. Attraverso un disegno hanno raccontato qualcosa di sé all’altro, aprendo un dialogo fertile verso l’ascolto e la conoscenza reciproca.
Inoltre, l’arte può essere uno strumento utilizzato per scopi didattici. Gli insegnanti hanno appreso nuove pratiche didattiche volte all’apprendimento come per esempio: portare conoscenze matematiche attraverso le forme e il ritmo; osservare le diversità segniche nel pre-grafismo e comprendere se sono presenti difficoltà nella coordinazione oculo-manuale o di altra natura.
Quindi non ha solo stimolato l’atto creativo ma anche l’aspetto cognitivo.
Esatto. Attraverso il segno e il colore si possono osservare molti aspetti dell’individuo dalla sfera emozionale a quella cognitiva. Esce fuori tutto ma richiede necessità d’ascolto, empatia e osservazione da parte dell’adulto.
C’è anche un valore sociale e politico, trasversalmente: attraverso la creatività introduco la mia voce all’interno di regole prestabilite anche in modalità ludica.
Questo è un ulteriore beneficio apportato..
Sì. È stato uno spiraglio, una finestra aperta nel loro orizzonte, sia nel ruolo dell’insegnante che di quello del bambino, per quest’ultimo, in particolare, è stato: io posso giocare. Non dobbiamo scordare che il gioco è un lusso che non tutti i bambini possono permettersi, eppure, è necessario per apprendere con piacere, scoprire nuove consapevolezze di sé e per sperimentare il mondo.
Si è trovata a lavorare in un contesto estremamente duro. Quali sono state le principali difficoltà che ha trovato? Come è riuscita a superarle?
La più grande difficoltà è stata superare l’istinto di sopperire ai bisogni primari: devo dar loro da mangiare e non colori perché lo sviluppo cognitivo dei bambini e la loro attenzione sono correlati alla nutrizione e non tutti mangiavano.
Guardare e toccare la fame negli occhi dei bambini è indescrivibile, non è come guardarlo in video o in foto. In realtà, questi bambini hanno fame anche di altro e non solo di cibo: questo mi ha permesso di andare avanti.
Cosa leggeva nei loro occhi?
La fame di vedere e conoscere oltre i propri orizzonti. Il desiderio di cambiare la loro condizione e la consapevolezza che la conoscenza, lo studio può essere una possibilità di riscatto sociale per andare altrove o per realizzare un sogno: vogliono cambiare la loro vita.
E, forse, anche il proprio Paese..
Sì, molti congolesi che hanno avuto la grande possibilità di andare a studiare in Europa o comunque in paesi occidentali, stanno rientrando e reinvestendo nell’educazione.
Qui gli strumenti per il riscatto sono educazione, sport, salute e prevenzione.
Non è saggio investire sul cibo, se si porta il cibo li si rende schiavi di noi mentre occorre dar loro la possibilità di procurarselo per migliorare la loro condizione sociale ed essere protagonisti del cambiamento.
Facciamo un passo indietro e parliamo di relazioni.
Lei è arrivata in un Paese culturalmente differente dal nostro. Com’è riuscita a interagire?
Ho messo in atto quanto l’arte, mia compagna di vita, mi ha insegnato: osservare e mettermi in ascolto, guardare come le persone si muovono e, conseguentemente, capire come relazionarmi.
Un po’ come relazionarsi ad un pezzo di marmo, di legno o con il colore. Cosa succede? Mi metto in ascolto della materia prima di creare.
La relazione con una cultura totalmente diversa non è stata semplice però l’osservazione e l’ascolto empatico mi hanno aiutato a intercalarmi in essa e trovare strategie di dialogo che, magari, inizialmente sono state fallimentari.
Molto spesso è stato necessario il mediatore, una persona non solo natia del posto ma che conosce bene l’occidente tanto da guidarmi nella comprensione di ciò che era a me molto lontano.
Per concludere le chiedo: c’è qualcosa che vorrebbe aggiungere?
Mi viene spontaneo dirle che al mondo non è ancora chiaro quanto arte e bellezza possano salvare, a livello sociale e non solo, diversi aspetti che stanno andando in declino.
Abbiamo bisogno di ritornare ad una connessione con noi stessi e con ciò che ci circonda per questo, nutrire la parte creativa che è dentro ogni essere umano può aprire nuovi sguardi e allontanarci dai meccanismi di potere.
Tornerà in Africa?
Mi auguro di sì.