“I disturbi alimentari in adolescenza sono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali”.
I disturbi della condotta alimentare sono patologie complesse caratterizzate da un disfunzionale comportamento alimentare, un’eccessiva preoccupazione per il peso con alterata percezione dell’immagine corporea.
Possono presentarsi in associazione ad altri disturbi psichici come ad esempio disturbi d’ansia e disturbi dell’umore e lo stato di salute fisica è quasi sempre compromesso a causa delle alterate condotte alimentari. Se non trattati in tempi e con metodi adeguati, il rischio è che divengano una condizione permanente per giungere a compromettere seriamente la salute di tutti gli organi e apparati del corpo (cardiovascolare, gastrointestinale, endocrino, ematologico, scheletrico, sistema nervoso centrale, dermatologico) e, nei casi gravi, portare alla morte.
Dialogo, oggi, con Antonia Di Genni, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta dell’adolescenza e del giovane adulto presso ASST Mantova.
Qual è lo stato attuale dei disturbi della condotta alimentare, in Italia e nel mondo? È stato lanciato anche un allarme da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i DCA sono diventati principale causa di invalidità nei giovani.
In questo momento siamo a 55 milioni di casi nel mondo e più di 3 milioni in Italia con un incremento che si aggira tra il 30% e il 35 % dopo la pandemia che, purtroppo, ha fatto salire i casi.
La cosa più preoccupante è l’abbassamento dell’età d’esordio.
Ad oggi, quando avviene l’esordio?
Se prima parlavamo di una fascia d’età compresa tra i 15 e i 25 anni ora si è passati a 12 anni.
A cosa è dovuto questo cambiamento in negativo?
C’è un abbassamento dell’età puberale e un’ esposizione massiccia ai modelli adultizzanti.
In questo momento il 40% per cento dei casi è tra i 12 e i 17 anni, il 25% sotto i 15 anni e un 6% intorno ai 12.
Il dato è preoccupante perché non sempre c’è un accesso precoce alle cure, anche se si sta cercando di lavorare a tutti i livelli per sensibilizzare, appunto, ad un accesso precoce per non impattare sulla prognosi della malattia.
Più si arriva tardivamente più c’è il rischio cronicizzazione.
Quanti tipi di disturbi alimentari abbiamo?
Vi sono diverse tipologie di disturbo alimentare.
Le prime tre grandi categorie sono L’anoressia Nervosa, la Bulimia Nervosa e il Binge Eating Disorder.
In realtà, a causa dell’impatto con il modello culturale odierno, si stanno delineando nuove tipologie di DCA.
Si sta aggiungendo, infatti, l’Ortoressia, caratterizzata dall’ossessione del mangiare sano, da una ricerca che diventa rigida di alimenti che siano genuini e naturali, una ricerca che condiziona fortemente la quotidianità di chi vive questo disturbo.
C’è la Vigoressia, da molti considerata l’equivalente maschile dell’Anoressia, per la sua larga diffusione tra i ragazzi. Si tratta di una ricerca ossessiva e compulsiva dell’attività fisica per delineare le forme del corpo, avere una certa muscolatura, dedicarsi a working outing intensi tutta la settimana senza possibilità di minimo imprevisto o cambiamento del programma che ci si pone, il ricorso a una dieta pericolosamente iperproteica e ad anabolizzanti.
Sta, inoltre, prendendo sempre più piega il Disturbo Evitante/Restrittivo dell’Assunzione del cibo (ARFID) o Disturbo da Alimentazione Selettiva che troviamo maggiormente in età evolutiva e che consiste in una certa selettività su alcuni cibi da parte di bambini che non accettano la possibilità di introduzione di altro, ciò può andare a incidere sulla curva ponderale e sui vari ambienti di vita, dalla mensa scolastica all’uscita a cena con i genitori.
Sono nuovi quadri clinici che è bene tenere a mente perché altrimenti si rischia di sottovalutare alcuni elementi: non si vuole patologizzare necessariamente tutto però intercettarli precocemente è qualcosa che aiuta.
Cosa rappresenta il cibo?
Il cibo ha una valenza importante perché nutre il corpo che è il luogo in cui viviamo le nostre emozioni, con il quale abitiamo il mondo e ci relazioniamo con l’altro.
Quindi, nutrire un corpo è un passaggio molto critico, soprattutto in adolescenza, in quanto quest’ultimo diviene portatore di gusti ideali e identificazioni, “biglietto da visita” in tutte le occasioni sociali.
Il cibo ci permette in qualche modo di controllare il corpo e la presentazione che vogliamo avere di questo biglietto da visita al mondo.
A volte, il controllo del cibo, costituisce la possibilità della necessità di controllo specie, appunto, in adolescenza dove tante emozioni sono difficili da elaborare e da mettere in parole.
Il controllo del cibo rappresenta l’espressione di un disagio, di un conflitto interiore.
Controllare il corpo è sentito come controllare la propria vita, il proprio mondo. L’adolescente che rifiuta il cibo sente di riuscire a dire finalmente dei “no” alle aspettative e alle richieste altrui. Il problema è che nessun disturbo come l’anoressia rappresenta un attacco letale alla propria soggettività. Nessun altro disturbo in adolescenza rappresenta un attacco tanto violento alla propria capacità di sognare e di costruire un proprio futuro. Nessuno attacca in modo tanto pervasivo e subdolo la possibilità di creare legami sentimentali e affettivi profondi.
Il sintomo alimentare è vissuto come una soluzione, di certo disfunzionale, per risolvere conflitti interiori che vengono veicolati dal corpo, elemento che in primis esponiamo a scuola, in palestra al lavoro.
I disturbi alimentari divengono, per cui, crocevia tra mente, corpo e cultura, la cultura del perfezionismo estetico.
Insomma, è un’intersezione molto complessa da gestire.
Tenendo presente che ogni storia va valutata nella sua unicità, quali possono essere i fattori scatenanti e i conflitti interiori di cui poc’anzi ha parlato?
Dobbiamo pensare al disturbo alimentare come a un’entità che ha delle cause ed aspetti multifattoriali.
Sicuramente, troviamo da un lato una persona che può presentare una vulnerabilità di suo rispetto al giudizio altrui, alle performance, al tema delle aspettative.
A ciò può essere associato anche l’ambiente famigliare, viviamo in mondo in cui le famiglie forniscono ai ragazzi stimoli e, talvolta, troppi nel senso che si trovano a gestire diverse attività anche extra-scolastiche, perché attraverso i figli si cerca di riscoprire il valore di se stessi come genitori.
Questo per alcune persone vulnerabili al perfezionismo può rappresentare un sovraccarico emotivo talmente forte e allo stesso tempo poco elaborabile: è qua che si vede il conflitto.
Ci troviamo innanzi alla volontà di procedere in una certa direzione e alla fatica a sorreggere quanto comporta questa posizione.
Il disturbo alimentare in qualche modo pone uno stop, fa uscire fuori un messaggio d’aiuto perché le condizioni di salute muovono l’ambiente che ci circonda e spostano le attenzioni su di noi, ma in alcune situazioni può rappresentare uno stop alla crescita.
Cioè, se ho paura del mio futuro, di cosa significa stare nel mondo e di quello che il mondo può chiedermi e io posso non essere in grado di mettere in campo, non nutrendo il mio corpo, in particolare con l’anoressia, fermo anche la mia crescita, quindi tante ragazze non hanno più il ciclo mestruale o le forme tipiche della femminilità, o altri ragazzi sono in evidente sottopeso.
È come se si congelasse tutto.
Ci si protegge dal mondo lanciando ad esso un messaggio.
Esatto, una richiesta d’aiuto che non riesco a dire con le parole ma esprimo attraverso il disagio del mio corpo.
Il corpo, quindi, diventa strumento di comunicazione all’esterno: ci si rende invisibili, ma si vuole che l’invisibilità venga vista.
Sì.
Purtroppo, tanti famigliari, in questo vedono un “capriccio”, invece il disturbo alimentare diventa espressione di un nucleo di sofferenza profondo dei ragazzi che ne soffrono.
È un’angoscia che deve trovare una soluzione.
Il DCA viaggia in comorbilità con altri disturbi psichici. Quali sono?
Allora, i più frequenti sono i disturbi dell’umore. Successivamente, abbiamo una comorbilità con il disturbo d’ansia, d’attacco di panico e disturbo ossessivo compulsivo.
C’è una quota di disturbo alimentare che ha un alto rischi di sviluppare un disturbo da abuso e dipendenza da sostanze,soprattutto i pazienti affetti da bulimia nervosa.
Non si diventa anoressiche e non si diventa bulimiche. Questi meccanismi hanno alle spalle un percorso
Utilizzare espressioni del genere è del tutto fuori luogo. Spieghiamo, una volta per tutte, il motivo.
Sì, è un percorso. Nessuno diventa. Si approda al disturbo alimentare quando non si riescono a trovare altre soluzioni per alleggerire un’angoscia, un dolore o una sofferenza molto profonda che non riescono a trovare voce nell’elaborazione, nella messa in parole e, quindi, il corpo diviene veicolo di queste ferite profonde. Il corpo le dichiara e le rende visibili al mondo e agli altri. È un percorso lungo e complesso che ognuno dei pazienti vive in modo differente.
Non ci si arriva per scelta capricciosa, ma perché in quel momento non si trovano altre soluzioni possibili.
Non è una soluzione estetica, bensì un nucleo di sofferenza ben più profondo che, magari, è presente da tanto tempo o ha avuto altre forme, o è rimasto sotto soglia fino a diventare talmente ingombrante da esplodere scegliendo questa strada, all’interno peraltro di un contesto culturale che inneggia al corpo perfetto e alle forme fisiche. un incastro molto pericoloso.
Accanto al controllo sul cibo, con il tempo sorge il delirio d’onnipotenza. In cosa consiste?
Il delirio d’onnipotenza è connesso al controllo.
Il controllo mi da un rimando totalmente illusorio di poter tenere a bada tutta l’imprevedibilità che lo stare nel mondo può causare.
Quindi, se attraverso la gestione del cibo, delle calorie, attraverso l’ossessività che metto nella preparazione dei miei pasti riesco a rendere le cose prevedibili e nel pieno mio controllo ho l’illusione di gestire l’altro aspetto che sfugge al controllo, cioè le emozioni, le insicurezze, il non sentirmi adeguata/o all’interno di contesti: più aumento il controllo, più metto a tacere l’imprevedibilità delle situazioni e delle dinamiche emotive che esperisco, aspetti che ovviamente però non spariscono ma rimangono dentro, lavorano e purtroppo continuano a creano sofferenza. Nella malnutrizione severa molte/i ragazze/i descrivono una distanza emotiva dal mondo che, a sua volta, potenzia il vissuto di onnipotenza. Spesso sentiamo frasi come questa: “Tutto mi arriva come dietro ad un vetro spesso che attenua tutto…”.
È un’ onnipotenza illusoria che, sul momento, permette di zittire le parti emotive più scomode le quali, in seguito, vengono a galla perché il controllo non c’è più e in realtà si arriva ad essere s sovrastati dalla malattia ed è essa che prende il vero controllo della persona.
Abbiamo raccontato il DCA dal punto di vista dei meccanismi psichici. Quali sono, invece, le conseguenze fisiche? Non si parla solo di eccessiva magrezza o peso in eccesso. Vi sono anche organi interni che, con il tempo possono subire lesioni.
Le conseguenze sono diverse.
Ci possono essere problemi cardiaci, malattie cardio-vascolari, ci possono essere danni all’apparato gastro-intestinale quando si induce il vomito e di questo si hanno più episodi durante la giornata, ulcere, problemi all’esofago, è frequente anche la disidratazione, la tendenza ad avere danni alle gengive.
Si perdono i capelli.
Sistemi come fegato e reni vanno in sovraccarico, si può giungere all’osteoporosi precoce, se non c’è un nutrimento adeguato c’è una maggiore possibilità di fratture.
Blocco della crescita, alterazioni a livello endocrinologico, disfunzioni a livello ormonale.
Glicemia e diabete.
Ovviamente, le varie problematiche sono connesse al tipo di disturbo alimentare.
I disturbi alimentari in adolescenza sono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali.
Questo è un dato importante da conoscere, perché quando diciamo la frase che le ho appena detto i genitori ci guardano con gli occhi sgranati.
Spesso, si passa, dal colpevolizzare il paziente allo sminuire fino ad arrivare a pensare che domani “mi sveglio e ce la faccio” come se si trattasse unicamente di una questione di volontà.
Rimarchiamo questa cosa, perché i DCA sono anche la prima causa di morte tra le malattie di natura psichica.
Nel 2023 abbiamo avuto 3780 decessi.
Esatto.
Perché una ragazza si lascia morire di fame? Ricordiamo e sottolineiamo che non sceglie fi farlo, non lo decide.
Non lo decide e neanche è consapevole di andare incontro alla morte.
Questo è il paradigma che va un po’ smontato.
Io non decido che “voglio essere un po’ più magra e che voglio morire”.
Io decido che voglio trovare un modo per plasmare il mio corpo e la mia presentazione agli altri, perché sento di mettere a tacere questa paura, anzi terrore, di presentarmi all’altro e di rischiare di essere incompetente o non sufficientemente interessante.
Ci sono ragazze/i che prima di passare al disturbo alimentare si isolano a livello sociale perché è tanta l’angoscia di domande pervasive come “Cosa devo dire?“ “Cosa posso fare?“ “Se faccio questo gli altri cosa dicono? Mi giudicano?”.
Pensano dunque che “sistemando” il corpo possono tornare nel gruppo perché, in tal modo, possono essere ammirate/i e possano essere protette/i dal temutissimo giudizio.
Non hanno la percezione dunque di quanto questo, col tempo, possa mettere a rischio la salute fino, nei casi più gravi, ad avere rischio di morte.
Ragazze con BMI bassissimo hanno l’illusione, quasi delirante, di poter svolgere tutte le attività, comprese quelle fisiche compensatorie e di non avere alcuni rischio, perché la dispercezione dell’immagine corporea, ovvero una visione distorta della realtà e corporeità, è talmente forte e radicata, e l’onnipotenza del controllo seduce così tanto, che non si riesce ad avere percezione reale delle cose.
Passiamo ai soggetti che ruotano intorno a colei che soffre di disturbo alimentare.
Non solo figure genitoriali, fratelli o sorelle, ma anche fidanzati o compagni. Come devono approcciare alla malattia? Cosa sentono? Cosa devono capire?
Si sente una grande rabbia derivante dall’impotenza e dalla frustrazione di non vedere migliorare le cose. Si deve stare attenti a non agirla però, questo perché il rischio è quello di costringere a mangiare o emettere ultimatum o di esprimere descrizioni del corpo che possono passare un messaggio di giudizio/critica.
Se sono genitore inoltre, entrare nell’ottica che mio figlio è malato, mi porta a dover prendere atto che forse, su alcuni aspetti, posso non essere stato un “buon genitore” e, questa cosa, è tanto dolorosa che è più facile stare in una dimensione che minimizza o rimane sulla superficie per gestire la sofferenza che evoca.
Quello che è importante fare è partire dal fatto che non è mai un discorso di volontà, perché ci si trova di fronte a una patologia complessa.
Affidarsi ad esperti ed essere aiutati da essi nella comunicazione di modo che si eviti di entrare in situazioni di conflitto che sostengono il sintomo e non aiutano ad alleggerirlo.
È bene trasmettere il messaggio che nella vita si è amati e apprezzati come persone e non come corporeità e fisicità.
Lo stesso vale per i partner che devono essere disponibili all’ascolto attraverso i vali canali che si possono avere a seconda delle dinamiche di coppia ma, al contempo, non cadere nella tentazione di fare i terapeuti o avere, nel caso dei partner, atteggiamenti da genitori: questi sono errori non voluti, ma dettati dalla disperazione.
Quindi, bisogna affidarsi ad équipe multidisciplinari che gestiscono il disturbo alimentare nelle sue varie sfaccettature che guidano anche famigliari, partner, scuole ed educatori ad avere l’approccio giusto e a sostenere il percorso di cura senza il rischio di peggiorarlo.
Ha mai notato una sorta di tentativo di fuga di queste figure innanzi al disturbo alimentare?
Sì, a volte, c’è la negazione da parte da chi ne è affetto perché questo fa parte della patologia, ma anche da parte di chi ruota intorno a chi ne soffre perché è complesso comprendere le dinamiche profonde, quindi si rischia di restare sulla superficie dell’iceberg e quindi se non si mangia, si mangia male o si mangia troppo, basta agire su questi tre ambiti per trovare soluzione.
Il vissuto di sofferenza che è sommerso, ma che è il motore del disturbo alimentare è molto più complesso e siamo, in aggiunta a ciò, in una fase storica in cui verbalizzare come ci si sente ed entrare in contatto con le proprie fragilità è sinonimo di vulnerabilità.
Esprimere le proprie emozioni, la propria depressione o malessere non rientra purtroppo in un ideale di società performativa come quella attuale.
So che voi, come struttura, avete messo in atto un progetto legato alla cura dei disturbi alimentari. Vogliamo parlarne?
Nel 2021 è stata emanata una legge dedicata: Legge Regionale 2/2021 “Disposizioni per la prevenzione e la cura dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione e il sostegno ai pazienti e alle loro famiglie”, che prevede uno stanziamento annuo di 1.500.000 €.
Questo ha permesso di potenziare le risorse nei servizi allo scopo di intercettare il più velocemente i disturbi e anche diffondere una cultura di attenzione e sensibilizzazione al problema.
La nostra ASST di Mantova, all’interno di questa cornice regionale, ha messo a punto un progetto che prevede la collaborazione di più servizi, quindi la neuro psichiatria, la psichiatria, la medicina interna, la pediatria e la psicologia clinica costituendo équipe multidisciplinari all’interno delle quali lavorano diversi professionisti come psichiatri, psicologi individuali e famigliari, pediatri , dietisti, internisti, educatori e tecnici della riabilitazione pediatrica. In particolare, con i finanziamenti regionali si è acquisita un’equipe dedicata, composta da psicologo individuale, psicologo familiare e nutrizionista specializzato che accompagna ragazzi e famiglie dai 14 ai 25 anni. In questo modo si garantisce la necessaria continuità, prima interrotta dal passaggio alle equipe dei servizi per l’adulto a 18 anni. Tutto ciò da completezza di interventi e permette un’efficace integrazione tra tutti i servizi coinvolti.
Cosa significa guarire? Non stiamo parlando di un raffreddore o di una frattura, siamo nella sfera psichica.
La guarigione non passa solo attraverso il fatto che non c’è più urgenza dal punto di vista fisico, ma anche attraverso un lungo percorso di supporto e sostegno alla sofferenza psichica.
Si tratta di percorsi che richiedono tanti sforzi e che richiedono come attori non solo i pazienti, ma anche le loro famiglie, i partner e coloro che li affiancano.
Guarigione significa che il disturbo alimentare non è più invalidante, la persona può muoversi nei suoi ambiti di vita con la libertà di scegliere e di vivere appieno le proprie risorse e mettersi in gioco e questo può succedere, quando, dopo l’uscita dalla situazione più acuta e di urgenza, la sofferenza psichica che può comunque restare, continua ad essere accompagnata e supportata.
Al momento più della metà delle pazienti si possono considerare guarite, anche se in alcune di esse rimane un certo livello di sofferenza psichica o la tendenza ad avere ancora preoccupazioni relative al cibo o al corpo che però non sono invalidanti.
Un 20% purtroppo tende a cronicizzarsi e dobbiamo fare, conseguentemente, i conti anche con questa parte. Va ricordato comunque che un ricorso tempestivo a percorsi appropriati riduce in modo estremamente significativo il rischio di cronicità.
Nel momento in cui il disturbo diventa cronico, come è giusto agire? Cosa può succedere?
In questi casi i livelli di cura contemplabili per un quadro acuto, quindi regime ambulatoriale o Day Hospital o regime di ricovero, in una condizione con rischio di cronicizzazione rischiano purtroppo di non essere più sufficienti. Risulta dunque importante e prezioso contemplare la possibilità di strutture di tipo ri-abilitativo – residenziali a lungo termine, specializzate nei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, dove si può mettere in campo un percorso di cura, in ambiente protetto, in cui il paziente è seguito a 360 gradi fuori dalla sua quotidianità, con garanzia di interventi clinici e terapeutici, all’interno di un format di cura più intensivo, e dunque più indicato per questi casi più complessi.
Nel nostro territorio ce ne sono diverse sia per l’età evolutiva che per l’età adulta che lavorano, con grande esperienza, nella gestione dei casi a rischio di cronicizzazione o non responsivi, per complessità e gravità, agli interventi clinico- terapeutici fino a quel momento attuati.
Immagine in evidenza Abisso di Cristina Sirizzoti