Io sono Jenny!
Siamo nel 1977 e, all’interno di un panorama musicale italiano spaccato in due, diviso tra la poetica dei grandi cantautori e la merda propinata per far leva sui buoni sentimenti, Vasco Rossi presenta al pubblico “Jenny è Pazza”, un testo nel quale la mano dell’autore è un ariete che sfonda il muro dietro cui, in tanti, troppi si nascondevano.
Di depressione ne parlavano in pochi, quasi nessuno, un vero e proprio tabù, un argomento che doveva rimanere tra le pareti di casa.
Vasco fa centro.
Jenny non è una persona reale, Jenny è Vasco, Jenny è l’impersonificazione della depressione. Jenny siamo tutti noi che la viviamo sulla nostra pelle.
Con poesia racconta la sofferenza, il patimento fisico e psichico che si nasconde dietro la malattia.
É di questo che stiamo parlando.
Una malattia che si insidia piano piano nell’anima risucchiandone la linfa e frantumando l’esistenza: “Jenny non vuol più parlare – non vuol più giocare – vorrebbe soltanto dormire – Jenny non vuol più capire – sbadiglia soltanto – non vuol più nemmeno mangiare.”
Un male in grado di spegnere le emozioni che, risucchiate dentro un vortice, vengono sputate dentro a un buco nero: “Jenny non sente più niente-non sente le voci che il vento le porta-Jenny è stanca-Jenny vuole dormire.”
Qualcuno, in pochi, a volte, si domandano il motivo. Probabilmente, si chiedono da cosa è scaturito tutto: “Jenny ha lasciato la gente- a guardarsi stupita-a cercar di capir cosa”, senza realmente comprendere.
Siamo del campo dell’irrazionale, di qualcosa che apparentemente non esiste, ma le cui fondamenta sono estremamente razionali.
La canzone ha quasi cinquanta anni, cosa è cambiato da allora?
Il testo sottolinea lo stigma ancora attuale rispetto al problema.
Certo, adesso, se ne può parlare con gli addetti ai lavori, ma nel confronto con l’altro diventa causa di isolamento.
Il nostro è un Paese che non ha una vera cultura della salute mentale.
Così lontani dall’accettare che, come si ammala il corpo, la stessa identica sorte può toccare alla psiche, rendendo il soggetto un morto in vita considerato, a volte, una palla al piede, un peso da evitare per non essere assorbiti dalla sua tossicità.
Chi soffre di depressione viene, spesso, considerato pazzo, ovviamente nel senso bieco del termine: “Jenny è pazza c’è chi dice anche questo” escluso, demonizzato, lasciato solo nel suo vomito: “Jenny non può più restare- portatela via- rovina il morale alla gente”.
Cosa rimarrà? “Jenny ha pagato per tutti -ha pagato per noi – che restiamo a guardarla ora Jenny è soltanto un ricordo-qualcosa di amaro da spingere giù in fondo”.
La conclusione, allora come oggi rimane la stessa: finché continueremo a guardare gli altri con occhi bendati, il punto di non ritorno è inevitabile, perché Jenny… “Io che l’ho vista piangere di gioia e ridere- che più di lei la vita credo mai nessuno amò- io non vi credo lasciatela stare -voi non potete”.
Diciannove anni dopo, Jenny si trasforma in Sally: “Sally che non ha più voglia di fare la guerra, che ha già visto che cosa ti può crollare addosso, che è già stata punita”, con una riflessione finale “Ed un pensiero le passa per la testa /Forse la vita non è stata tutta persa/Forse qualcosa s’è salvato/Forse davvero non è stato poi tutto sbagliato/ Forse era giusto così/Forse, ma forse, ma sì…”
Articolo a cura di Mara e Stefano Cozzoli.