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Iran: la rabbia e l’orgoglio.

È nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato.
Hannah Arendt, La banalità del male.

Animali, nel senso bieco conferito al termine. Non si fermano davanti a niente!” impreco, mentre lascio scorrere innanzi a me le immagini di Majidreza Rahnavard, 23 anni, ultimo ragazzo impiccato ed esibito alla folla con l’accusa di “guerra contro Dio”.
“Questa è un’esecuzione pubblica, dalla quale potrebbero scaturirne altre! ” esclamo, sola, quando, in precedenza, la stessa sorte è toccata Mohsen Shekari.



Come spiega Anna Arendt  “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso”.
Un corpo morto esposto al mondo in segno di intimidazione,  un messaggio  dal significato chiaro e univoco: “Non avrete quello che volete, abbiamo il potere e possiamo blindarvi, in qualunque modo, quando vogliamo”.
Due giovani, due storie e un destino comune: divenire, materialmente, emblemi di un veemente sistema che, fin da subito, ha attuato  la strategia del pugno di ferro, o meglio ancora quella della repressione violenta.
Si chiama “Repubblica Islamica”, ma quell’aggettivo “Repubblica” è ben lungi dalla pratica democratica.
Innanzi a noi, infatti,  un regime teocratico che, nella ripugnante condotta di questi mesi ha spazzato via la vita di 44 tra bambini e adolescenti scesi in piazza a manifestare: ammazzati, colpi partiti a distanza ravvicinata dalla cosciente volontà di uccidere, di silenziare quel caos tanto fastidioso, perché ciò è permesso da una spietata “legge”  rea di violare, quotidianamente, i diritti umani.
I tribunali iraniani agiscono secondo la logica dell’arbitrarietà, pongono in essere processi lampo e, ad ora, hanno disposto undici condanne  a morte che si assommano alle due già eseguite,  più migliaia di persone arrestate, tra cui 70 giornalisti, 35 dei quali, effettivamente, risultano, al momento, sottoposti a sistema carcerario

Attualmente sono 400 i manifestanti sotto accusa per le proteste, con un bilancio di 160  condannati a pene detentive tra i 5 e i 10 anni, 80  a pene detentive tra i 2 e i 5 anni e altre 160  a pene detentive fino a 2 anni. Per  70 manifestanti sono state,invece, stabilite pene pecuniarie.
Nel mezzo di  una  carneficina, all’ultimo frangente, un timido raggio di sole: sospesa l’esecuzione di Mahan Sadrat Marni, anche se, l’incognita circa la sorte del ragazzo rimane aperta.
Sanzioni sono giunte da Canada, Gran Bretagna e Francia, quest’ultima, in particolare, ha richiamato a Parigi l’incaricato agli affari irani,
Su Twitter il ministro degli esteri Antonio Tajani scrive: “La prima condanna a morte di un manifestante in Iran dall’inizio delle proteste è un punto di non ritorno. L’Italia e il suo governo esprimono forte condanna. Continueremo in ogni sede, con le nostre pressioni diplomatiche, a difendere la libertà e i diritti umani violati da Teheran”.
“L’esecuzione rappresenta una escalation sinistra dei tentativi del regime per eliminare tutte le critiche e reprimere le manifestazioni”, afferma il portavoce del dipartimento di stato Usa Ned Price, mentre il consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha twittato che gli Usa “chiederanno conto al regime iraniano delle violenze brutali che ha inflitto al suo popolo”.

L’assassinio di Mahsa Amini, ventiduenne curda, avvenuto lo scorso settembre e dovuto a una ciocca di capelli sfuggita dal velo, a sua volta indossato “in modo inappropriato”, come una bomba ha scoperchiato “il vaso di Pandora”.
 Se, inizialmente, le proteste erano dirette a un decesso  tanto atroce quanto privo di logica, con il passare dei giorni si sono viste cambiare le carte in tavola.
Le rivolte, a questo punto,  hanno assunto la duplice veste  di rabbia \ orgoglio: uomini e donne, disposti  a morire, pur di recuperare la dignità che, in quanto esseri umani, spetta loro.
Tra i defunti e chi ancora lotta, ai miei occhi appare l’Araba Fenice, uccello mitologico che risorge dalle proprie ceneri, un simbolo che, nella mia mente, assurge il volto e il monito della storia:  impiccagioni e spari non possono fermare il cammino di un popolo verso la libertà.
In Iran la posta in gioco è molto più alta della vita stessa.
Spira un forte vento le cui radici, solide, trovano origine nello sguardo delle nuove generazioni.


Mara Cozzoli

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