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Roy Lichtenstein. The Sixities and the history of international Pop Art. Intervista a Matteo Vanzan, curatore.

| Mara Cozzoli |

La Città di Desenzano del Garda (Bs), in occasione del centenario della sua nascita, celebra uno dei più importanti artisti americani della Pop Art internazionale: Roy Lichtenstein.
Organizzata dall’Assessorato alla Cultura e prodotta da MV Eventi, la mostra “Roy Lichtenstein: the Sixties and the history of international Pop art” ospitata presso il  Castello a partire dallo scorso 29 aprile, presenta 60 opere di Roy Lichtenstein e di alcuni dei principali protagonisti del rinnovamento artistico degli anni 60′.
Dialogo, oggi, con Matteo Vanzan, curatore dell’esposizione.

Raccontiamo questa mostra nei suoi aspetti contenutistici, includendo anche il percorso che l’ha condotta a concretizzarsi.

La mostra è impostata, ovviamente, su un focus relativo a colui che è stato considerato il campione americano prima dell’arrivo di Andy Wharol: Roy Lichtenstein.
Abbiamo suddiviso il Castello in due sezioni: il piano superiore è dedicato, appunto, a Roy Lichtenstein, anche perché ricade il centenario della sua nascita e ci sentivamo, quasi, il dovere di rendere omaggio a quello che è stato l’artista più importante del secondo 900’.
La parte inferiore, invece, è stata dedicata a quello che è stato lo spirito dell’epoca:  l’arte visiva con esponenti quali Robert Rauschenberg,  Andy Wharol, Mimmo Rotella e quant’altro, condendo poi, il tutto, con i tratti salienti degli anni 60′ quindi, la cinematografia con alcuni spezzoni di film più rilevanti come “Odissea nello Spazio“, “La dolce vita“ e una colonna sonora che raccontasse l’emozione di quegli anni.
Abbiamo aperto un canale non solo accademico circa l’arte visiva, ma impostando anche un viaggio emozionale nello spirito di un perido, un’animo  rivoluzionario che ne ha cambiato i temi.

Questo viaggio emozionale può essere considerato uno dei messaggi che si vogliono trasmettere al pubblico?

Io credo che l’obiettivo di ogni mostra, soprattutto di quelle dedicate agli anni 60′, sia di rinnovare sempre il linguaggio, legandosi alla sperimentazione e non fermarsi mai a quanto già è stato detto, ripresentandolo  però in mille maniere differenti.
L’arte è, in primo luogo, una concezione di coraggio. Gli artisti sono eroi perché hanno saputo mettere in discussione tutto quello che prima il sistema arte promuoveva: accademie da una parte e artisti pop dall’altra parte.
Il senso della mostra è anche fare riflettere sullo stato dell’arte, oggi, italiana e internazionale, sempre armonizzandoci  ad un percorso storico, perché non dobbiamo mai dimenticare che è importante rinnovare, senza dimenticarci da dove veniamo.
Lo stesso Lichtenstein, cosa che abbiamo espresso in una sezione dedicata, ha reso omaggio ad alcune personalità da lui studiate durante il college, durante i suoi studi accademici: Picasso, Mondrian e Carlo Carrà in primis.



Sì, Roy ha avuto un forte base classicista.
Parliamo di Pop art, quindi, una corrente artistica. Quali sono i tratti che la caratterizzano? Come ha influenzato l’arte contemporanea?

In questo caso dovremmo parlare dell’artista Pop per eccellenza che è Andy Wharol, io dico sempre che quest’ultimo non morirà mai perché è stato l’artista che più ci siamo meritati, ha saputo leggere la società, interpretarla e ha saputo prevedere ciò che, oggi, noi stiamo vivendo: siamo catapultati dentro una società fatta di indici finanziari, miti e icone.
Se icona per eccellenza all’ora era Marylin Monroe, per noi, in questa fase, potrebbe essere Valentino Rossi.
La Pop art, di fatto,  ha reso l’arte accessibile a tutti.
Se prima per comprendere gli artisti era, comunque, fondamentale, avere un background, cioè uno studio culturale,  la Marylin di Wharol o il fumetto di Lichtenstein venivano capiti da tutti e, di conseguenza, una nuova generazione di amanti dell’arte, collezionisti e quant’altro ha avuto modo di confrontarsi anche con ricerche all’interno di musei che prima non erano, spesso, accessibili.
Dove hanno rivoluzionato il mondo dell’arte? Si dice che, in molti casi, l’arte contemporanea si sorta proprio con gli artisti pop, soprattutto con Andy Wharol, ed è vero.
Se noi, oggi, abbiamo degli artisti come Hirst, Murakami, Maurizio Cattelan, i grandi brand, chiamiamoli così, lo dobbiamo anche a Wharol, che ha fatto in modo che anche l’artista diventasse non solo un firma, ma anche brand di successo.
Con Wharol nasce il concetto  di “Business art“, un’arte che acquisti a uno e domani puoi rivendere a dieci perché c’è una rivalutazione costante.
Anche Lichtenstein con la sua tecnica Bendai, di cui si è appropriato e non è, sottolineo inventore, in quanto la tecnica a puntini serigrafici fu introdotta dal signor Bendai, porta a far assumere alla sua opera un significato, elevato poi, all’ennesima potenza da Wharol, di un’arte meccanica, prodotta in serie che si lega al concetto industriale.
Parliamo, dunque, di artisti ben inseriti nell’animo dell’epoca perché l’artista è un uomo che va al bar, fa colazione, conosce e compie le grandi rivoluzioni della propria epoca che racconta attraverso l’immagine.
Sono stati tutti grandi innovatori del linguaggio e, mi permetto di dire, molto più concettuale di quanto può sembrare a prima vista.

In parte, mi ha anticipato. Roy Lichtenstein con la sua arte ha rivoluzionato il linguaggio espressivo dell’epoca. Focalizziamoci,dunque, su questo punto.

Lui l’ha rivoluzionato perché si sentiva la necessità di cambiamento.
Come l’arte degli anni  70′ che si è concentrata, esclusivamente, sull’analisi teorica della pittura, della pittura analitica o su un’arte pienamente concettuale, dopo dieci anni il mondo dell’arte ha sentito il bisogno di rivoluzionarsi.
Pensiamo all’informale che è durato quasi vent’anni, senza fare metafore troppo azzardate, però, se mangio spaghetti al pomodoro, che io adoro, tutti i giorni per vent’anni, magari il ventunesimo ho voglia di mangiare qualcosa d’altro.
Il sistema dell’arte ma, soprattutto gli artisti, hanno sentito il bisogno di un ritorno alla figurazione.
Se gli artisti informali l’avevano completamente rinnegata per questioni politiche e sociali, negli anni sessanta gli artisti hanno sentito la necessità di ritornare al mondo e, alcuni di essi, lo hanno capito prima di altri: Roy Lichtenstein e Andy Wharol.

Perché un artista che ha rivoluzionato il linguaggio espressivo, inizialmente, è stato  un po’ svalutato?

Beh, non è che sia stato svalutato, perché poi Lichtenstein è sempre rimasto lì.
Occorre considerare il fatto che il fumetto è stata un’immagine talmente forte, avvincente e giusta, che è entrato nel mondo dell’arte per quell’iconografia, in realtà, come egli scrive in un suo articolo: “Io ho fatto anche altro“.
Non dimentichiamo mai e, io lo cito sempre, Andy Wharol è stato fino al 67’ mai presentato, perché non lo avevano ancora capito. Quando con la Merylin entra in Biennale il mondo dell’arte si rende conto che egli non è solo arte visiva, ma che per comprenderlo occorre prima comprenderne il mondo.
Poi, la storia ha decretato che Robert Rauschenberg è stata la figura che ha spostato l’arte da Parigi a New York, dal punto di vista culturale, ma che Andy Wharol aveva qualcosa in più, era un artista completo.
Un critico d’arte disse: “Michelangelo, Leonardo e Raffaello, sono emersi grazie alla mediocrità degli artisti che li circondavano“.
Questa è un’affermazione molto forte ed anche una provocazione, non stiamo certo dicendo che Giulio Romano o Lorenzo Lotto non fossero grandi artisti, stiamo dicendo che Michelangelo, Leonardo e Raffaello avevano quello scintillio che li ha portati ad emergere, certo, poi dobbiamo parlare anche di conoscenze e committenze.
Wharol rispetto a Lichtenstein, forse, è stato un artista completo a 360 gradi perché ha creato un mondo da lui chiamato “Factory“, all’interno del quale  erano le star  recarsi da lui e non il contrario.
Altro esempio: tra i tanti artisti italiani degli anni 60’, tanto in Italia quanto nel resto del mondo, viene ricordato Mario Schifano, perché lui ha qualcosa in più che altri non hanno e, ancora, oggi, non si sa spiegare cosa.

Come valuto, allora, se un artista ha qualcosa in più?

È una percezione.
L’arte è ciò che noi definiamo essere arte. Bisogna definire il noi, noi non siamo tutti, è un elite culturale che dopo anni di studio, mostre e testi critici,  può vantare quell’autorità di dire: “Quello è un artista e l’altro no, quell’artista è migliore dell’altro“.
Dopo vent’anni che si è immersi in questo mondo, sappiamo che non esiste un criterio scientifico, sappiamo solo che è una percezione che viene dimostrata dal consenso del pubblico.
In quelle pitture c’è qualcosa che esprime determinate forze.

Tornando un attimo a Roy, lui ha avuto la genialità di trasformare il fumetto in una vera e propria opera d’arte.

È quello che ha fatto.
Il fumetto esisteva già, solo che nessuno prima di Licthenstein aveva pensato di metterlo su tela e di portarlo non in edicola ma al MoMa di New York.
Con l’arte contemporanea si passa dall’arte della tecnica a quella dell’idea.

Cosa significa che è stato in grado di rappresentare la realtà mediata?

Una realtà è mediata nel senso che la mediazione nasce nel momento in cui un prodotto seriale, vedi un fumetto, attraverso la decontestualizzazione, viene trasformato in altro, che è un opera d’arte e assume nel contesto culturale del museo un’aura che altrimenti non avrebbe.
Sorge, quindi, una relazione nell’azione che l’artista compie tra l’oggetto principale che viene tramutato in oggetto finale, una trasformazione alchemica.

Qual è il ruolo del curatore, quali competenze e caratteristiche deve avere? Così, in automatico, arriviamo a spiegare quella che è la sua funzione.

A me piace definire il curatore in due modi: colui che si prende cura di un museo, un castello e, ttraverso gli eventi riesce a creare un accesso di pubblico e un veicolo turistico funzionale, dall’altro lato, invece, è un’artista, perché se un’artista crea un’opera dentro una tela, io devo creare un punto all’interno dello spazio espositivo.
Ciò che faccio io è avere un’idea, avere un concept e trovare l’amministrazione che sposa quel progetto e lo fa realizzare.
All’interno, poi, del percorso espositivo, il curatore sceglie come farlo, per cui, cerca le opere, i collezionisti, contatta l’assicurazione per le opere , infine, impagina tutta la mostra e la condisce con apparati multimediali che rendono il più possibile l’esperienza completa.
Il principale lavoro del curatore è il problem solving, risolvere problemi di qualunque natura anche in cinque minuti, occorre una forte base culturale, perché se non si conosce la storia dell’arte e le attuali proposte contemporanee del mondo dell’arte, difficilmente possiamo raccontarla a coloro che non la conoscono.
Oggi, secondo me, è importante, avere un linguaggio che possa anche variare in base alla platea che si ha di fronte.
Il linguaggio del critico d’arte e del curatore, al momento, deve essere un linguaggio Pop, accessibile, che tutti possano comprendere.
Per promuovere l’arte è fondamentale appassionare chi ascolta a determinate tematiche.
Ci sono anche altre caratteristiche: saper mantenere i rapporti, saper gestire un’azienda, certo in queste situazioni ciò che conta è l’esperienza sul campo.
Io dico sempre che la migliore formazione oltre a quella dell’università, è la strada. Non c’è altro modo che mettersi in gioco, magari dalla piccola galleria di pese e negli anni, se si è fortunati e non si molla mai, nonostante i tempi bui, se il lavoro è solido e le mostre piacciono e hanno una contestualizzazione concreta, d qualche parte si arriva.

Prima di concludere, le faccio un ultima domanda: che legame intercorre tra arte, psicologia e filosofia?

È tutto.
Su queste relazioni si fonda, non dico il 100%, ma un buon 90% della creazione artistica.
Cioè, prima avviene il pensiero, poi viene la scrittura, poi l’arte visiva.
Pochi sono stati gli artisti che non si sono confrontati con teorie filosofiche.
Pensiamo al surrealismo, quando nasce?

Con “L’interpretazione dei sogni“ di Freud.

Esatto, perché nel 1900 quest’opera di Sigmund Freud viene pubblicata, poi si passa alla metafisica, per carità.
Trovo strano che De Chirico non conoscesse quel libro.
Tutta l’arte degli anni 70’ nasce da una riflessione filosofica sulla teoria del linguaggio.
Quindi, arte, psicologia e filosofia, sono un tutt’uno.

Mara Cozzoli

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