Skip to main content
Milano più sociale. Periodico di informazione online

Disturbi alimentari e cronicità. Intervista a Fernando Fernandez-Aranda.

| Mara Cozzoli |

I disturbi alimentari costituiscono un sintomo, una manifestazione visibile di quanto si agita dentro.
Cosa accade, però, quando il disturbo diventa cronico?
Fondamentale, in tal caso, al fine di evitare conseguenze che, a lungo andare, influiranno sulla qualità della vita, è l’accesso precoce alle cure.
Dialogo, oggi, con Fernando Fernandez Aranda, psicologo clinico e Direttore dell’Unità per i Disturbi dell’Alimentazione del Policlinico Universitario di Bellvitge – Barcellona e Direttore dell’Unità di Recupero Integrale dei Disturbi dell’Alimentazione dell’Hospital Sagrat Cor di Martorell (Barcellona).

Cosa si intende per cronicità del disturbo alimentare?

Per stabilire la cronicità viene considerata la durata del disturbo, alcuni professionisti parlano di più di sette anni. 
In realtà, noi pensiamo che siano più di dieci anni, ma più che la durata in sé è importante che i trattamenti precedenti, completi e non, avvenuti durante l’infanzia e l’adolescenza, siano falliti per almeno due volte.
Parliamo, pertanto, di un disturbo che perdura durante l’età adulta.

 
Qual è il percorso che porta un disturbo alimentare, in particolare l’anoressia, allo stato cronico?

Sono molti i fattori che possono influire.
Il primo è il disturbo alimentare stesso. 
L’anoressia tende a evolvere in modo cronico e in sé il trattamento non è mai breve.  
Quando parliamo di un disturbo alimentare pensiamo a un trattamento della durata di almeno due anni che, inizialmente, sarà più intensivo ma che, in seguito, richiederà dei controlli per valutare l’andamento della situazione.
E in questo caso parliamo di situazioni nella norma.
Vi sono poi situazioni specifiche in cui è presente la comorbilità con altri disturbi mentali, in particolare disturbi affettivi, disturbi della personalità, disturbi legati all’uso di sostanze o disturbi dello spettro autistico.
In questi casi è più difficile per i pazienti essere trattati e ottenere risultati positivi.
Inoltre, ci sono altri fattori che possono avere un impatto negativo. Uno di questi è, ovviamente, la gravità dei sintomi, ma anche la mancanza di supporto sociale e relazionale che di solito si associa ad una scarsa risposta terapeutica e, naturalmente, a un’evoluzione più cronica. 
Infine, i tratti di personalità.
In alcuni casi si possono manifestare tratti di personalità specifici ad esempio una maggiore rigidità, perfezionismo, impulsività e, conseguentemente, questi pazienti possono avere maggiori difficoltà ad adattarsi al trattamento.
L’insieme di tutti questi fattori rende difficile il miglioramento e, spesso, aumenta la probabilità che il trattamento venga abbandonato.

Dal punto di vista psichico e fisico quali possono essere le conseguenze derivanti dalla cronicità?

Se pensiamo all’anoressia si possono avere conseguenze negative a livello somatico a causa del digiuno o del vomito.
Lo stesso discorso vale per la bulimia che, in base alla frequenza delle condotte disfunzionali, produrrà gravi conseguenze sia al livello somatico che psicologico. 
Nei casi in cui si ha un’evoluzione cronica del disturbo i pazienti si isolano e hanno, quindi, meno sostegno, meno legami con la vita quotidiana, con la famiglia e gli amici.
Ciò può ostacolare gli studi e la loro prosecuzione.
Molte volte le pazienti non abbandonano soltanto gli studi, ma anche il lavoro trovandosi, in tal modo, in una situazione molto difficile che le fa sentire senza speranza.

Poc’anzi ha parlato di relazioni sociali, quindi, affettive. In che modo il disturbo va ad intaccarle?

Isolarsi significa che ci sono meno amici e meno famiglia che possono offrire sostegno, ma l’impatto si estende anche a molte altre aree, non solo a quella sociale, ma anche a quello educativa e lavorativa. 
Si rischia di lasciarsi travolgere da una sensazione di disperazione: non ho obiettivi per il mio futuro anche se ho ancora 30-35 anni davanti a me, non ho alcuna speranza per ciò che vedrò e per chi sarò in futuro.

Al fine di evitare tutto ciò, quant’è fondamentale l’accesso precoce alla cure?

È molto importante ed è cruciale ridurre il tempo di attesa prima dell’inizio del trattamento.
Inoltre, è necessario specializzare ogni singolo trattamento. 
Questo vale sempre per quanto riguarda l’infanzia e l’adolescenza, ma anche quando parliamo di adulti che non sono stati accompagnati con continuità nella transizione dall’infanzia/adolescenza all’età adulta. Essere seguiti da un’unità dedicata ai trattamenti in età evolutiva significa che non si potrà essere seguiti dalla stessa in età adula. A volte  la discontinuità si presenta a causa dei tempi di attesa del nuovo servizio, ma anche per la scarsa motivazione della ragazza/o, che pensano che saranno in grado di gestirsi da soli.
È importante, quindi, che la transizione sia efficace e che ci sia una continuità di assistenza e trattamento. Quando pensiamo ad un paziente che non è riuscito ad avere successo nel proprio percorso di cura, non ha senso proporgli sempre lo stesso trattamento che non è stato efficace in precedenza. Abbiamo bisogno di essere più creativi per pensare non solo al recupero, all’alimentazione o al peso, ma anche al recupero della qualità di vita, della prospettiva di salute e della possibilità di progettare un futuro.

È possibile equilibrare o stabilizzare una fase cronica?

Sì, decisamente. Voglio dire, è complesso. Non è semplice. 
Naturalmente, dobbiamo lavorare molto con un approccio multimodale per individuare le barriere che ci sono state al fine di poter procedere efficacemente. 
L’obiettivo è restituire alle famiglie e ai pazienti la speranza di poter guarire che, accompagnata alla qualità della vita, sono fattori importanti.
Quest’ultimo aspetto è molto importante, ma deve essere affrontato attraverso una maggiore responsabilizzazione dei pazienti stessi: far assumere questa responsabilità è la parte centrale del trattamento. 
Perché ciò avvenga il paziente deve entrare nell’ottica che non è solo.
I tecnici forniranno supporto e saranno sempre presenti, ma anche i pazienti devono impegnarsi, altrimenti, neanche noi professionisti potremo fare nulla.
Occorre portare idee e approcci diversi, cercare di motivare i pazienti ad andare avanti e, naturalmente, a mantenere un po’ di fiducia rispetto al recupero di una qualità di vita che dopo 30 anni di disturbi alimentari hanno perso.

Lei è psicologo clinico e Direttore dell’Unità per i Disturbi dell’Alimentazione del Policlinico Universitario di Bellvitge e Direttore dell’Unità di Recupero Integrale dei Disturbi dell’Alimentazione dell’Hospital Sagrat Cor di Martorell. Come viene affrontato il disturbo alimentare in Spagna?

Sono psicologo clinico qui a Barcellona e dirigo l’Unità per i Disturbi Alimentari del Policlinico Universitario di Bellvitge, ma anche dell’Unità di Recupero Integrale dei Disturbi dell’Alimentazione dell’Hospital Sagrat Cor di Martorel, un centro hub per il trattamento dei Disturbi Alimentari di lunga durata. In Catalogna abbiamo 9 centri specialistici per il trattamento dei DCA su  una popolazione di circa 6.000.000 di abitanti. Disponiamo inoltre di 90 unità ambulatoriali specialistiche. 
Naturalmente, i pazienti sono seguiti anche dalle cure primarie e dai centri di assistenza psichiatrica non specialistici. 
L’integrazione e la sinergia tra servizi è molto importante per un’efficace gestione dei problemi, quindi non ci si può limitare a ciò che offre il proprio servizio. È fondamentale curare il lavoro di transizione tra unità, la collaborazione con la comunità e con le altre risorse del settore della salute mentale.
Nei servizi specialistici fondamentalmente utilizziamo l’approccio terapeutico abituale: l’approccio CBT (terapia cognitivo-comportamentale) e la terapia familiare. Naturalmente, prestiamo attenzione anche all’aspetto nutrizionale. Tutto avviene in accordo con il paziente.
Il problema è che, dopo 10-15 anni di durata del disturbo, questo approccio potrebbe non funzionare più ed è necessario un approccio diverso, ed è proprio ciò che stiamo iniziando a fare nell’Unità di Recupero Integrale dei Disturbi dell’Alimentazione dell’Hospital Sagrat Cor di Martorel, un centro hub per il trattamento dei Disturbi Alimentari di lunga durata.. Quest’unità, pur trovandosi in un altro ospedale, lavora in stretta continuità con l’Unità per i Disturbi Alimentari del Policlinico Universitario di Bellvitge e  con tutte le altre Unità Specialistiche della Catalogna, che inviano i loro pazienti con quadri di lunga durata e che abbiano fallito almeno due precedenti percorsi terapeutici.  Dopo il trattamento nel Centro di Martorell, ottenuto il miglioramento, i pazienti vengono nuovamente inviati alle 18 Unità per i Disturbi Alimentari da cui provenivano. La continuità delle cure e del trattamento è, quindi, molto importante, cruciale.

Ogni paziente è diversa dall’altra, quindi, come cambia l’approccio? Quali strategie applica?

La modalità d’approccio è ritenuta sempre più rilevante, ed è, quindi, necessario personalizzarla,
adattarlo alle diverse situazioni.
A volte per essere efficaci serve essere più flessibili, meno rigidi nelle norme e nel setting. Per esempio, alcuni pazienti riescono a venire in ospedale due o tre volte alla settimana, mentre altri soltanto una volta.  Dipende dalla situazione. L’elemento chiave è decidere insieme ai pazienti e soprattutto nei quadri cronici di lunga durata arrivare a mediazioni strategiche. Prendere in considerazione la possibilità di personalizzare l’approccio ci permette anche di dare maggiore rilevanza alle loro decisioni e rendere così il trattamento più efficace. Gli obiettivi da raggiungere non sono gli stessi per tutti e possono non riguardare solo l’alimentazione, ma anche fattori personali come l’isolamento, il ritiro sociale.

Un luogo comune, spesso, male interpretato dice che le anoressiche sono bugiarde e manipolatrici. Vogliamo approfondire questo punto? Ritengo chequest’affermazione dei meno esperti, dei non addetti ai lavori sia oggetto di fraintendimenti.  A volte, sono i famigliari ad esprimersi in questi termini, una convinzione che fa loro comodo.

È vero. 
Questo è un tema importante e riguarda la stigmatizzazione dei pazienti da parte delle famiglie e dei professionisti. 
Non è che il paziente è un bugiardo e sta cercando di fare le cose in modo diverso.
Se si ha questa opinione sul paziente con difficoltà, non lo si può trattare in modo adeguato.  Il paziente è sopraffatto da questa situazione, è ossessionato da questa situazione, dalle sue preoccupazioni, dall’estrema importanza data al cibo e alla forma fisica.
Per questo lo si vede come bugiardo.
Non è che sono bugiardi, hanno bisogno di aiuto e questo può essere difficile da accettare.
A volte, naturalmente, può accadere che la situazione non corrisponda a ciò che vi stanno dicendo, ma questo è espressione del disturbo.
Si tratta semplicemente di parlare e non è detto che stiano mentendo: come terapeuta, dico che stanno mentendo a sé stessi. Non dobbiamo fermarci a questo, occorre risolvere il problema con loro. 
I disturbi alimentari sono oggetto di molti pregiudizi. A volte, infatti, le persone pensano: “Perché non mangi? Se mangi, ti riprenderai”.
Il disturbo alimentare non è solo un problema nutrizionale e alimentare è anche e soprattutto un problema mentale.
Bisogna essere positivi e rassicuranti, e dire che ci si riprenderà. 
Spesso, lo stigma che i professionisti hanno nei confronti dei disturbi e dei pazienti viene trasmesso alle famiglie e questo non aiuta. Per questo è necessario instillare fiducia. È necessario creare un ambiente protettivo in cui anche i pazienti siano  responsabili del proprio trattamento.

Quanta sofferenza c’è dietro al disturbo alimenare?

Tanta.
I pazienti soffrono perché, all’inizio, probabilmente, non ne sono consapevoli, ma più la durata è lunga, più lo diventeranno. 
Stanno perdendo qualcosa nella loro vita, proviamo a chiederci cosa.
Chi stanno perdendo tra amici e famiglia? Litigano e discutono con loro. Più la durata è lunga, più gli scontri sono frequenti.
Con il tempo non avranno o non sentiranno più di avere obiettivi nella loro vita e ne soffriranno molto. Naturalmente anche le famiglie ne risentono molto.
In molti casi, notiamo quando sia profonda la perdita di speranza, il pensare che non si riprenderanno e che non ci sarà nulla che potrà aiutarli.
Quindi, c’è molta sofferenza e noi dobbiamo aiutarli a guarire o almeno a recuperare una qualità di vita maggiore non compromessa dal disturbo.


Immagine in evidenza: Anorexia di Cristina SIrizzotti.

Mara Cozzoli

Leggi tutti gli articoli