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Gudrun Ensslin, attrice, madre, terrorista, prigioniera. Intervista a Ilaria Floreano.

Germania, anni 70’.
Pensando al terrorismo il primo nome che passa per la testa è Ulrike Meinhof, sebbene fu Gudrun Enssln insieme ad Andreas Baader a fondare la RAF. Gudrun era una giovane donna dalla mente brillante, un’intellettuale, figlia della borghesia, ad un certo punto decide di darsi alla lotta armata e piazzare bombe.
Da cosa nasce questa scelta? Ma, ancora prima, chi è stata Gudrun Ensslin, personaggio di cui poco si parla preferendo, di contro, accendere i riflettori, appunto, su Ulrike Marie Menhof?
Dialogo, oggi, con Ilaria Floreano, autrice di “Gudrun Ensslin. Attrice, madre, terrorista, prigioniera”, edito Bietti con prefazione di Barbara Sukowa che in “Anni di piombo” interpretò Marianne Klein, nonché Gudrun Ensslin.


Trovo coraggioso e singolare decidere di raccontare una terrorista. Per come la vedo io è riuscita a spezzare i soliti schemi, sottolineando che anche una donna, contrariamente, a quanto si pensa possiede un lato oscuro, una zona d’ombra che la spinge a scelte inconsuete e violente. Perché ha voluto scrivere un libro incentrato sulla figura di Gudrun?

Fino a tre anni fa non conoscevo Gudrun Ensslin – come non la conosce quasi più nessuno, oggi, soprattutto in Italia. Avevo visto, all’epoca dell’uscita, La banda Baader Meinhof, il film di Uli Edel del 2008 – tratto dal libro-“bibbia” sulla RAF di Stefan Aust, Il gruppo Baader-Meinhof. Storia della Rote Armee Fraktion. Mi ricordavo il personaggio della bionda alta e aggressiva, nuda nella vasca da bagno, o abbracciata ad Andreas Baader, che abbandona il figlio per darsi alla lotta armata. Poco altro.
Poi, circa tre anni fa, Claudio Bartolini, che co-dirige insieme a me la collana di saggistica cinematografica I libri di INLAND per Bietti Edizioni – storica casa editrice milanese con cui lavoro da quasi undici anni, e per la quale ho curato e tradotto l’ultima edizione, aggiornata e integrale, del tomo di Aust – e dirige l’annessa rivista INLAND. Quaderni di cinema, per il numero 18 ha deciso di ampliare il compasso, passando da un’impostazione di critica cinematografica a una di analisi storica attraverso la rappresentazione audiovisiva che è stata fatta di un certo fenomeno, di una certa epoca o di un certo personaggio. Per sua personale curiosità culturale, ha scelto di dedicare tale numero 18 – nuovo nel formato, nella foliazione (quasi 400 pagine, dalle 60-70 dei 17 numeri precedenti che erano monografici sui registi), nella distribuzione (lo si può acquistare su Amazon o scrivendomi su Facebook e Instagram), nel taglio – proprio alla banda Baader-Meinhof, avendo in mente film come Germania in autunno, Anni di piombo o, appunto, quello di Edel. Invece ha scoperto un vero e proprio mondo sommerso, vastissimo e perlopiù inesplorato, di film tedeschi mai arrivati in Italia, di documentari, di materiali di repertorio, che con una ricerca di due anni e il contributo di avvocati, storici, esperti di cinema e diritto, registi, attori, attivisti politici è riuscito a mappare e affrontare approfonditamente.
Quanto a me e Gudrun Ensslin, che nonostante il nome dato alla banda è stata la vera prima-donna della RAF, Claudio mi ha chiesto un saggio che parlasse delle versioni cinematografiche che ne sono state date. Ce ne sono addirittura sette, in film di finzione in cui Gudrun è protagonista, personaggio di maggior spicco o focus drammaturgico.
Ammetto di non aver risposto con entusiasmo: dedicare mesi di lavoro a questa donna che ha lasciato un figlio di un anno per piazzare bombe e finire per impiccarsi in carcere non mi attirava affatto. Pensavo ci fosse un abisso tra me e lei. Poi però, come sempre mi accade, la curiosità ha avuto la meglio: se una regista come Margarethe von Trotta le ha dedicato un capolavoro di filosofia ed equilibrio come Anni di piombo, e altri sei registi di epoche e sensibilità diverse hanno voluto esplorare la sua vicenda, chi ero io per ritenerla non degna? E così ho cominciato a vedere o rivedere questi sette film, e altri; a leggere e studiare; ho scritto il mio pezzo per INLAND, e dopo mesi passati immersa in questo studio e poi nella traduzione dell’Aust – dal quale emergevano via via sempre nuovi dettagli che complicavano il quadro della vita di questa donna – mi sono ritrovata a pensare che, forse, tra me e lei non c’è poi la distanza che credevo. E che certe sue riflessioni, certi suoi slanci, certi suoi tentativi, per quanto fuori misura e fallimentari, sbagliati,hanno le stesse premesse che potrei avere io, ancora oggi. E come me tante altre donne e tante altre madri – sebbene in poche lo ammetterebbero. In fondo, Gudrun ha fatto quello che ha fatto anche per rendere migliore il mondo – pieno di storture e ingiustizie – in cui aveva messo suo figlio Felix.
All’inizio, l’idea era di riversare tutto questo ammontare di conoscenza e pensieri intorno a Gudrun in un breve libriccino della collana digitale Bietti Fotogrammi. L’ho scritto in cinque giorni. Poi sono successe altre cose, e dopo un anno ho sentito il bisogno di rimetterci mano e di ampliarlo. Il risultato è un libro di quasi 300 pagine, in cui fanno incursione anche Giovanna d’Arco, Rosa Luxemburg, R.W. Fassbinder… e in cui l’esistenza di Gudrun e la sua rappresentazione sul grande schermo fanno da spunto per un ragionamento più ampio e complesso su materno e femminile, con tutto ciò che di politico questo comporta.

Prima di passare all’analisi del personaggio è fondamentale entrare nel merito del contesto in cui visse, una Germania instabile dal punto di vista socio-politico. Cosa stava accadendo?

Gudrun è nata il 15 agosto 1940, quarta dei sette figli di Helmut Ensslin, pastore evangelista. Nel 1967 le succedono tre cose: gira un cortometraggio, partorisce suo figlio, ascolta attonita il resoconto della manifestazione contro lo Scià di Persia che, nata come pacifica a opera di studenti, si trasforma in un disastro. Agenti provocatori iraniani e poliziotti tedeschi caricano i militanti, li bombardano coi cannoni ad acqua, e a un certo punto un giovane studente di teologia, Benno Ohnesorg – che partecipava per la prima volta a un evento di quel tipo e non era politicizzato – viene ucciso con un colpo di pistola da un poliziotto. Quella sera, Gudrun di fronte a un gruppo di compagni sconvolti grida: «Questo stato fascista vuole ammazzarci tutti! Dobbiamo armarci e combattere. Questa è la generazione di Auschwitz, con loro non si può ragionare!».
Benno viene ucciso il 2 giugno 1967 – da quello che si scoprirà poi essere un agente della Stasi sotto copertura, per due volte prosciolto dall’accusa di omicidio; nell’aprile del 1968 Gudrun compie il primo degli attentati incendiari che pianificherà e realizzerà insieme a Baader; nel 1970, con l’ingresso nel gruppo di Ulrike Meinhof, nasce ufficialmente la Rote Armee Fraktion.
Il contesto è quello in totale, globale fermento del 1968: in ogni parte del mondo gli studenti si ribellano, scendono in strada, pretendono di demolire il sistema corrotto. In particolare si ribellano contro la guerra in Vietnam, il primo dei conflitti moderni a essere documentato giorno dopo giorno in televisione. Vedere i corpi dei civili bruciati dal napalm non è come leggerne sui giornali, e tanto in America quanto in Europa e altrove fioriscono decine di movimenti extraparlamentari, incendiati dall’energia spregiudicata di questi giovani che per la prima volta si fanno sentire, vogliono “uccidere il padre”, sono arrabbiati e scendono in piazza.
Questa situazione generale, nella Germania che solo pochi anni prima ha ospitato un’oscenità inconcepibile come la Shoah, e ora è divisa dal Muro di Berlino – eretto nel 1961 – è resa ancora più esplosiva da un dato storico unico: Gudrun e i suoi compagni, membri della RAF o delle decine di altri gruppi e gruppetti in cui la sinistra extra parlamentare via via si frammenterà, sanno che molti dei ruoli chiave del governo della Repubblica Federale Tedesca sono occupati da ex nazisti. E non lo accettano. Per loro il Vietnam è una nuova Auschwitz. L’obiettivo di Ensslin, Baader e della RAF è distruggere questo stato di fatto, annientarlo. Non hanno interesse a sostituirlo, in questo senso non hanno una mira politica – come accade invece in Italia con le Brigate Rosse, che volevano rovesciare il governo per sostituirsi a esso.

Gudrun è stata una donna dalle mille sfumature, mi viene da dire: tutto, il contrario di tutto.
Partiamo da questo punto: cresce in un ambiente borghese e viene sottoposta a un’educazione teologica. In che modo questi due elementi influenzano la sua scelta di darsi alla lotta armata?

Un suo cognato ebbe a dire, come riporta Aust, che il mondo in cui Gudrun è nata e cresciuta, almeno fino a quando non si trasferisce a Tubinga per studiare filosofia all’università, era una specie di torre d’avorio, all’interno della quale si cantavano cori di chiesa, si scrivevano prediche edificanti, si leggeva ogni sera la rivista per brave ragazze evangeliste, e ci si domandava esterrefatti come fosse possibile che il mondo fuori fosse tanto brutto e perverso, senza averne però una reale cognizione, senza essersi mai per davvero “sporcati le mani” – sebbene, va detto, padre Helmut Ensslin in epoca nazista osò dire, durante un sermone, «Hitler è grande, ma Dio lo è di più», cosa che gli valse più di qualche notte insonne. L’educazione ricevuta porta Gudrun a essere un’appassionata, quasi ossessionata esegeta della Bibbia: ai suoi amici chiedeva di aprirla in un punto a caso e leggerne una frase, che lei avrebbe poi spiegato. La sua è un’educazione anche castrante, dal punto di vista sessuale, di controllo e censura. Tanto che, una volta uscita dalla casa paterna e iniziata l’università – e scoperta la marijuana – Gudrun sperimenta una libertà così inebriante da non poterne fare più a meno. Anzi, dal volerne sempre di più. Dunque, si potrebbe ipotizzare che la scelta di darsi alla lotta armata derivi dal desiderio di libertà completa dai lacci borghesi – eppure Gudrun all’inizio ci prova, a stare nei ranghi: si sposa, lavora nella casa editrice insieme al marito (Bernward Vesper, figlio del poeta nazista Will), ha un figlio. Ma poi incontra Baader, se ne innamora fatalmente, e per lui molla tutto. Facendo così emergere, tra le sue varie personalità, quella più incandescente e violenta, ma anche quella più rigorosa, assetata di assoluto, quella che dopo aver messo da parte i Vangeli per Marx li riprenderà in mano, autoinvestendosi di una missione sacra, percependosi come un’eretica medievale, una “Giovanna d’Arco” che mostra agli altri quanto stanno sbagliando, perché la verità è sua.

Quale ideologia la portò a optare per questa strada?

Prima di darsi alla lotta armata Gudrun è stata una sostenitrice molto partecipe e attiva dell’SPD, il Partito Socialista Tedesco, per cui insieme al marito scriveva discorsi e slogan. Partecipava alle riunioni di partito, desiderava che i socialisti arrivassero al governo e lo denazificassero. Quando invece l’SPD, durante la campagna elettorale del 1966, forma una coalizione con la CDU, l’Unione Cristiana Tedesca, la delusione è bruciante. Da quel momento, Gudrun si stacca progressivamente dalla militanza civile, quella propugnata per esempio da Rudi Dutschke, il carismatico leader del movimento studentesco, e inizia a frequentare giri meno concilianti, fino al fatidico incontro con Baader prima e con l’avvocato Horst Mahler dopo. Quest’ultimo, che li difende entrambi dopo gli attacchi incendiari ai grandi magazzini dell’aprile ’68, sarà lo stesso che li troverà a Roma – dove si sono nascosti per non tornare in carcere e da dove vorrebbero proseguire il viaggio e non tornare più in Germania – e, convincendoli a rientrare a Berlino, condurrà alla fondazione della RAF.
Baader non è un politico, Gudrun forse nemmeno: sono due ex studenti (Baader in realtà è più uno scansafatiche che ruba motociclette e guida senza patente, figlio viziato di una mamma sola e di un padre disperso in guerra) che hanno deciso di non voler aspettare, che non si fidano delle riforme e delle istituzioni, che vogliono “fare qualcosa”. E scelgono di fare qualcosa di eclatante, di simbolico, come mettere bombe in due grandi magazzini all’ora di chiusura (i membri della Prima generazione avevano come punto fermo il non voler coinvolgere civili nelle loro azioni di guerriglia urbana, che avevano come obiettivo solo militari, preferibilmente americani).

Ragazzina tranquilla, studiosa, ma allo stesso tempo provocatrice, capace di utilizzare il trucco e i vestiti per manifestare il proprio pensiero.  Il contrario di quanto si aspetterebbe da un profilo come il suo.

Se una cosa ho capito di Gudrun, dopo tre anni da quando l’ho incontrata, è che fu e resta un enigma irrisolvibile. A seconda del filo che si sceglie di seguire, può apparire come una leader o una sociopatica, una pazza o un’intellettuale visionaria, una sorella e una figlia devota o una madre snaturata, una coraggiosa o una bulla, una che si innamorava facilmente o una masochista… Quanto al look, le commesse dei grandi magazzini, all’indomani dell’esplosione, la descrissero come una ragazza sciatta con le mèches, un tipo che “non avevano mai visto prima”. Prima della lotta armata, Gudrun una volta si presentò a un esame universitario pesantemente truccata, conscia che il suo aspetto l’avrebbe definita più di qualunque altra cosa. E dire che, a guardare le fotografie in bianco e nero di lei da piccola, o neo-sposa, o quella che ho usato per la copertina del libro, con gli occhi azzurri e i capelli biondi, ha un aspetto angelico.

Donna molto istruita, un’intellettuale. Frequentava la facoltà di filosofia, preparata… sapeva il fatto suo, non certo stupida o ignorante.

No, sebbene non fosse nemmeno brillantissima come mi ero immaginata.
A un certo punto fece domanda per una borsa di studio, voleva diventare insegnante, la valutazione fu “sufficiente”. Aveva di certo un afflato pedagogico molto forte, lo si vede quando comincia a precettare nuovi membri della RAF tra i ragazzini disadattati dei riformatori, ed era una persona attraente, dal punto di vista sessuale come intellettuale. Ulrike Meinhof probabilmente aderì alla RAF perché vide in Gudrun ciò che voleva essere e non aveva ancora avuto il coraggio di diventare. Tuttavia, il suo percorso, costellato di decisioni che restano inspiegabili, ha il carattere della stupidità, se con stupidità si intende il mettersi a giocare a un gioco di cui non si conoscono e non si vogliono conoscere le regole, e che si vuole soltanto boicottare, indefessamente in opposizione e arroccati sulle proprie convinzioni. Per me che sono nata nel 1984, e dunque non ho “respirato” in prima persona l’aria di quel tempo, è davvero arduo riuscire a comprendere cosa può essere stato. Il libro è il mio tentativo di riuscirci.


Nel corso del primo processo che si tiene a Francoforte, Gudrun accetta di parlare con uno psichiatra che, alla fine, la reputa «una persona dall’aspetto eccezionalmente amichevole, ma internamente rigida, instabile e inamovibile». Nell’arringa finale del processo di Stammheim gli avvocati dell’accusa la descrivono come «una persona senza traccia di umanità con abissi criminali che avrebbero fatto inorridire chi ha una lunga pratica nel diritto penale». Quanta verità c’è?

La perizia dello psichiatra di Francoforte, nel 1968, mi sembra piuttosto pertinente. L’arringa dell’accusa a Stammheim, nell’aprile 1977, ha i toni esasperati ed esasperanti che hanno connotato dall’inizio alla fine quel processo che sarebbe più corretto definire una tragica farsa, o uno psicodramma. Certo c’è stata un’evoluzione psicologica di Gudrun, o meglio involuzione, che ha trasformato la sua sete di assoluto, la sua “volontà di potenza”, la mancanza di senso pratico delle sue azioni – di per sé indizi di una spiritualità più elevata rispetto alla media – in una rigidità malsana, non-vitale. Così, è diventata prigioniera della sua testa ancora più che nella sua cella.
Non bisogna poi dimenticare che nei cinque anni di detenzione a Stammheim, e già prima, Gudrun ha fatto numerosi scioperi della fame, è stata a lungo in isolamento assoluto, ha vissuto tra corridoio e cella, sempre in compagnia delle stesse persone a ripetere le stesse cose… Non un buon modo per allenare la propria umanità. Almeno, non nel suo caso. 

Nel suo libro la paragona a Giovanna D’arco. Tanti punti le accomunano, per altri sono differenti. Entrambe parte di un processo discutibile, ritenute pazze. Se Giovanna porta avanti la sua battaglia fino alla fine, Gudrun muore suicida in carcere. Focalizziamoci sul loro essere uguali e diverse. Ma, soprattutto, il suicidio significa abbandonare la lotta o racchiude un significato più profondo?

Parlando di Gudrun con Agnese Grieco – che a lei, Baader e Meinhof, ovvero la cosiddetta “Prima generazione” della RAF, ha dedicato un bel libro, Anatomia di una rivolta (uno dei pochi a parte i nostri dedicati a questa complessa e affascinante vicenda umana e psicologica, più ancora che politica e terroristica) – siamo giunte alla conclusione che Gudrun – come Ulrike Meinhof, come Giovanna, come le sante anoressiche, insomma come i vari tipi di idealista – aveva, annidato in sé, un acuto desiderio di morte. Anche Giovanna D’Arco, come racconta splendidamente George Bernard Shaw nella sua bella pièce, Santa Giovanna, che pure aveva abiurato, alla fine sceglie di farsi bruciare, dicendo che una vita rinchiusa, a pane e acqua, senza possibilità di vivere realmente, non è vita e non merita di essere vissuta. Meglio essere arsa.
Il suicidio, più o meno imposto/assistito/indotto – come è nel caso di Giovanna e di Gudrun – è una scelta radicale, la più radicale di tutte. L’ennesima compiuta da Gudrun, che “bevve il calice fino alla feccia” e, forse, prese quella decisione – di concerto con Baader e Raspe, che in cella la stessa notte si spararono, mentre lei si impiccava – per fare un ultimo sfregio al sistema. Perché fecero in modo che anche la loro morte fosse simbolica, un’altra dimostrazione di avere avuto a che fare con uno stato fascista. Non a caso, dal momento in cui vennero rinvenuti i cadaveri, subito si sviluppò la tesi dell’omicidio di Stato, non che si fossero suicidati. Io propendo invece per la tesi di Aust, secondo la quale si sono ammazzati – e, anche, che nessuno, all’interno di Stammheim, ha impedito che potessero farlo (cosa ci facevano due pistole in un carcere di massima sicurezza, nascoste in celle che erano costantemente perquisite?). Ma fa riflettere che abbiano scelto di autoeliminarsi una volta fallito il dirottamento del Lufthansa, organizzato dai membri della Seconda generazione RAF in collaborazione con guerriglieri dell’OLP, i cui ostaggi avrebbero dovuto essere barattati con la loro liberazione. Quando capirono che da Stammheim non sarebbero più usciti, e dunque che quella che doveva essere “solo una fase” della lotta era diventata il capolinea, decisero di chiuderla lì. Forse, anche, per far sì che la generazione di guerriglieri successiva a loro, che loro avevano addestrato, potesse tornare a focalizzarsi sulla lotta, anziché preoccuparsi solo di tirarli fuori dal carcere.
L’associazione che ho voluto creare con la Pulzella d’Orléans è nata dopo aver letto, traducendo l’Aust, un dato che non avevo incontrato nei testi studiati in precedenza: ovvero quel considerarsi come un’eretica medievale di cui accennavo prima. Sull’iscrizione di condanna a Giovanna si legge strega, eretica, recidiva. Nel libro descrivo le affinità tra loro soprattutto sul piano della rappresentazione cinematografica che ne è stata data: guardando le versioni con Ingrid Bergman, quella di Fleming molto hollywoodiana e quella di Rossellini ben più “neorealista”, quella iconica e imprescindibile fornita da Renée Falconetti nel film muto di Dreyer, o ancora quella più immediata e naturalistica di Robert Bresson, e leggendo il testo di Shaw, o la trascrizione degli atti del processo curata da Teresa Cremisi, ho riscontrato alcuni punti di tangenza curiosi, trucchi di radianza tra le epoche e le “eroine”, la stessa arroganza in entrambe, motivata da “voci” che in un caso sono di campane e sante, nell’altro di barbuti filosofi tedeschi, in entrambi meno comunicazioni con l’aldilà e più escamotage per fare qualcosa che a una donna non era concesso nel XV secolo e nemmeno nel XX. Ovvero essere violenta, essere libera, non essere sottomessa, non essere pudica e docile, ma al contrario agire “come un uomo”, con passione, coraggio, esagerazione, nella provocazione, nell’azione, nel fallimento, anche nello scegliere di morire, e come morire.
Come disse Gudrun, «sui giornali ci descrivono come virago impazzite perché, per loro, che una donna possa lasciare il ferro da stiro e impugnare una pistola è inaccettabile». Come fu inaccettabile che una ragazzina si mettesse alla testa di un esercito, e mettesse una corona sulla testa di un re senza rispettare gli ipocriti equilibri geo-politici, e per di più lo facesse con la vigorosa sicurezza di una “mandata dal Signore”, che di quei signorotti e generali vari si faceva beffe, inchiodandoli alle loro contraddizioni, alle loro meschinità, alle loro falsità.
Il re, e i più realisti del re, non amano in nessun caso il bambino che dice “il re è nudo”.

Da dentro il carcere, attraverso lo sciopero della fame, Gudrun denunciò le condizioni in cui i detenuti politici venivano costretti. Raccontiamo la vita in carcere di questa donna che, fino, all’ultimo, rimase attaccata al suo amore per i vestiti e per i libri. In cella di isolamento, le condizioni psicologiche non erano, comunque le migliori.

Nella sua cella, prima la numero 719 poi la numero 720, al settimo piano di Stammheim, in quei cinque anni di detenzione Gudrun accumulò qualcosa come 450 libri. Aveva il suo violino, la possibilità di scrivere, di fumare, di ascoltare dischi. Aveva una scorta di snack che spesso si faceva portare dalla sorella, alla quale per lettera chiedeva di procurarle anche calze, maglioni, pantaloni, forbicine per unghie, shampoo per capelli, pettini, spazzole… In alcune di queste lettere, di cui nel mio libro ho tradotto una selezione, vediamo quanto fosse preoccupata che i suoi capelli si rovinassero senza scampo. Odiava avere la forfora, non potersi lavare decentemente, l’odore di umido.
Gudrun venne arrestata in una boutique, e quando ancora era una giovane editrice-mamma-militante disse: «Anch’io amo le macchine e i vestiti, ma comprare è rendersi ciechi». È una delle sue mille contraddizioni, che rileviamo in forma particolarmente acuta per la piega che la sua vita ha preso, ma se ci fermassimo un attimo a meditare su noi stessi, con onestà e senza paura… non scopriremmo che siamo tutti profondamente contraddittori? Lei semplicemente ha fatto una scelta, e si è ritrovata in una situazione, in cui tale contraddittorietà si è mostrata in maniera estrema, al grado zero, animale, per così dire.
Quanto alle condizioni psicologiche, come dicevo prima, erano condizioni davvero al limite, in cui una certa puerilità – che è innegabile nel modo di pensare e di agire di Gudrun, di Andreas, per certi versi anche di Ulrike – smettendo di raffinarsi ed educarsi tramite lo studio, il dialogo, il confronto civile, e autoalimentandosi di certezze granitiche continuamente discusse solo con interlocutori che le ripetevano quasi allo stesso modo, ha determinato un marcire del pensiero, un impallarsi, come quando la puntina del giradischi si inceppa. In quelle condizioni di nuda vita – fisica e mentale – ogni elemento della personalità rivoluzionaria/criminale di Gudrun, che è quella che lei ha scelto di manifestare di più e fino alla fine, si è esacerbato.

Era madre, lascia marito e figlio per unirsi nella lotta con Andreas Baader insieme al quale fondarono la RAF.  Il pensiero è: quale madre lascia un figlio per intraprendere questa strada? In realtà poco dopo il parto scese in piazza a manifestare affermando che lo faceva per dare un futuro al proprio figlio. Parliamo di Gudrun madre.

Wenn wer nicht wir (“Chi se non noi”), uno dei sette film che l’hanno come protagonista, purtroppo non distribuito in Italia, è incentrato su Gudrun prima che diventi la terrorista della RAF. Mostra l’incontro con il futuro marito all’università, la storia d’amore tra i due, le nozze, la vita domestica, i primi tempi con il bambino. Appare dolce e tenera, e il momento in cui lascia il figlio, verso il finale, è straziante. Negli altri film, invece, il distacco dal figlio o non viene raccontato, o è proposto come un dato di fatto, avvenuto in modo netto, tranciante. Perciò questa era l’idea che mi ero fatta, prima di cominciare ad approfondirla: di una donna dura, spietata, vittima del suo fanatismo ideologico. Da qui il mio iniziale, istintivo rifiuto: per me, che sono una mamma, e sono nata nel 1984, l’idea di abbandonare mia figlia per darmi a una battaglia ideologica non aveva – e tuttora non ha – alcun senso. E questo nodo della sua vicenda resta per me difficile da sciogliere.
Ma con tutta la sua rigida intrattabilità, il suo essere votata alla causa fino alle estreme conseguenze, il suo criticare spietatamente Ulrike Meinhof in quanto incapace di deborghesizzarsi per intiero, Gudrun dal carcere si assicura che il figlio sia affidato a una famiglia che approva, che resti con i nonni, insomma che cresca in un ambiente piccolo-borghese. Felix Ensslin, che ha mantenuto il cognome di parte materna (suo padre Bernward si è suicidato nel 1971), oggi è uno stimato filosofo e drammaturgo teatrale. Ho provato a contattarlo per chiedergli un commento su Gudrun, ma non ha mai risposto e ho preferito non insistere.
Quello della maternità e del rapporto di una madre con la propria creatura è un altro abisso per certi versi insondabile, fatto di materia magmatica in costante ebollizione, di tabù inscalfibili, di cui si può percepire solo la superficie e in cui è pericoloso rimestare. Perciò di certe cose non si parla: ma una mamma può essere violenta, può non essere felice di essere madre, può pentirsi di esserlo diventata, può non amare le incombenze che essere una madre comporta, può addirittura non amare la prole.
Sono tutte possibilità, che spesso si realizzano, e spesso nei modi più cruenti e terribili, ma di cui non si può parlare. Perché parlarne equivale a renderle concepibili e plausibili, e una madre che non ama il figlio, una madre violenta, è qualcosa di inammissibile, contro natura. Quando – purtroppo – è molto più che naturale… Si sa che la polvere nascosta sotto i tappeti, spesso diventa da sparo.
Mentre Ulrike, altra contraddizione vivente, passò dall’essere una madre mediamente accudente al fare di tutto per sottrarle al loro padre e alla “vita borghese”; dallo scrivere loro lettere dal carcere chiamandole “Topoline!” salvo poi interrompere ogni comunicazione e scegliere di impiccarsi proprio il 9 di maggio, giorno della festa della mamma. La cesura da madre a non-più-madre in Gudrun non fu così violenta. Certo recise con forza e precocemente (abbandonò il figlio quando aveva meno di un anno, Ulrike abbandonò le sue gemelle quando queste di anni ne avevano otto), però poi non interferì più, si interessò da lontano, fece in modo che suo figlio crescesse tranquillo e sicuro. A volte, anche nel modo di rapportarsi con Baader, o con alcune altre donne della RAF (meno con Ulrike), Gudrun ha un fare materno…

Un punto mette in evidenza la conflittualità insita in questa donna e, forse, anche l’amore per il figlio. Odiava la borghesia ma quando decide di lasciare tutto affida il figlio ai suoi genitori, borghesi, questo per garantirgli un avvenire… Mi vien da pensare che non fosse senz’anima, certo non una madre modello, ma sicuramente una madre che, nel bene o nel male, pensava al suo piccolo.

Tra i fallimenti di Gudrun, c’è probabilmente anche il suo essere rimasta almeno in parte borghese, e questa sopravvivenza la si ritrova nella gestione della questione Felix, dopo l’abbandono, e anche – come rileva splendidamente la regista Margarethe Von Trotta nel film Anni di piombo, che consiglio di vedere perché è un pamphlet sulla politica, la militanza, il femminismo, la violenza, la sorellanza, di un’acutezza, di una profondità e di un equilibrio davvero mirabili – nel fatto che, chiusa in cella, prigioniera della sua mente, non può fare a meno di ricordarsi e ripetersi le parole della Bibbia, imparate da bambina nella casa paterna.
Ulrike, in tal senso, fu molto più spietata nei confronti della prole, addirittura a un certo punto, odiando visceralmente l’ex marito che l’aveva tradita, organizzò che le sue gemelle fossero rapite e trasferite in un campo profughi per orfani palestinesi, pur di non lasciarle con il padre, nella loro casa e nella loro vita borghese! Per fortuna Aust riuscì a intercettare la comunicazione e, fingendosi un membro RAF, prese con sé le bambine e dalla Sicilia dove erano state portate a forza le riportò in Germania.
Oggi Bettina è una giornalista e scrittrice che ha dedicato due volumi alla RAF e alla figura di Ulrike Meinhof – che non chiama mai mamma – mentre Regine è diventata una psichiatra e non ha mai detto una parola su sua madre.

Poc’anzi abbiamo citato Andreas Baader, l’uomo con la quale Gudrun fugge, fonda la RAF e vive una vita da clandestina. I due intrecciarono una relazione che ai giorni nostri definiremmo folle. Una miscela di attrazione erotica e intellettuale, fatta di violenza verbale e fisica, intervallata da attimi di tenerezza. Tra i due esiste una sorta di simbiosi.  Baader ha manipolato Gudrun? Gudrun era dipendente affettiva?

Nel mio libro il capitolo in cui parlo del rapporto tra Gudrun e Andreas l’ho intitolato Gli uomini sono la rovina di Gudrun, citando una frase della madre di lei, Ilse Ensslin. Quando pronuncia questa frase eloquente, Gudrun è già scappata con Andreas, ma il riferimento include anche Bernward. Trapela, dalla ricostruzione materna, l’esistenza di “ferite” interne non sanate, nella figlia, e una tendenza di Gudrun a legarsi in modo “fatale” agli uomini, un desiderio di dissoluzione in loro, o quantomeno nel rapporto con loro. Arrivo a dire che, se non si fosse innamorata di Baader, probabilmente Gudrun sarebbe rimasta sulla strada che aveva intrapreso, a militare con i libri e gli incontri di partito e le manifestazioni di piazza, insieme a marito e figlio. E Andreas, pur nel sommovimento di emancipazione sessuale e della donna in cui gli è dato di vivere, e pur essendo forse bisessuale, era un maschilista della peggior specie, che si rivolgeva a Ulrike dandole della troia borghese, e insultava lei e le altre spesso e volentieri. Gudrun era l’unica in grado di tenergli testa, eppure anche lei restava un passo indietro, diceva che era Andreas ad avere la vera forza rivoluzionaria, andava a fare shopping per lui, spegneva sul nascere ogni accenno di opposizione a quanto Andreas andava propugnando. Se diamo retta a Bettina la figlia di Ulrike – che per un periodo dovette convivere con loro, mentre si nascondevano a casa di Ulrike – Andreas e Gudrun erano due persone desolate, in uno stato di perenne alterazione chimica. Bettina ancora oggi non si spiega il fascino che riuscirono a esercitare allora come oggi. Nel libro io descrivo il loro rapporto come l’ennesima, spinosa e ingarbugliata contraddizione nella vicenda umana di Gudrun Ensslin: perché tra loro scattò un’innegabile attrazione fisica, eppure scelsero come nomi di battaglia “Hans e Grete”, ovvero i fratellini della favola dei Grimm, e le modalità con cui Gudrun placava, sopportava o assecondava gli scatti isterici di Andreas appartengono più alla sfera di una mamma che di un’amante emancipata e moderna. Completavano uno le frasi dell’altra, Gudrun traduceva per lui dall’inglese, si muovevano quasi sempre insieme, sono i fondatori della RAF, Gudrun la testa e Baader le viscere, ma Baader scrisse, parlando di Gudrun, «la vecchia muore se non scopa» e quando Gudrun e Ulrike cominciarono a farsi la guerra non prese posizione, si limitò a liquidarle come due pazze incomprensibili.

Perché, come abbiamo detto, più volte nel corso di questa chiacchierata, se Gudrun fu la reale fondatrice della RAF non le venne attribuito lo stesso peso concesso a Ulrike Meinhof? Le due donne furono amiche e nemiche…

All’epoca Ensslin era un mito, percepita come il capo accanto a Baader, e ancora oggi, in Germania e in rari casi in Italia, le si riconoscono grande tempra rivoluzionaria e vitalità intellettuale. Però diciamo “banda Baader-Meinhof” e non “Baader-Ensslin” per un motivo molto semplice: all’epoca in cui saltò in clandestinità per seguire Andreas e Gudrun, Ulrike Meinhof era una giornalista famosa, apprezzata, apparteneva all’intellighenzia tedesca di sinistra. Parlava in televisione, in radio, era l’editorialista di punta della rivista «konkret», diretta dal marito e finanziata dall’Est, aveva girato un documentario dedicato alla vita delle ragazze nei riformatori femminili. Passatemi il paragone, è come se oggi al tg sentissimo che Lilli Gruber un giorno è saltata giù da una finestra per unirsi alla lotta armata.
Credo che, se Ulrike fosse rimasta al suo posto come in teoria era stato concordato – e infatti molti membri RAF non le perdonarono mai la scelta di unirsi a loro nell’underground, sarebbe stata molto più utile restando “fuori” – l’impatto mediatico ed emotivo della RAF sarebbe stato molto inferiore. All’indomani della sua fuga, i muri, i lampioni, le edicole della Germania federale vennero tappezzate di volantini su cui campeggiava solo il volto di Ulrike, ricercata speciale, con una taglia di 10.000 marchi per chi l’avesse trovata. Fu messa in atto una caccia alla donna che impegnò tutti i corpi di polizia dello Stato, e la stampa non perse tempo a ribattezzare il gruppo “banda Baader-Meinhof”, appunto: da una parte per togliere il connotato politico (diciamo “banda della Magliana”, “banda Bassotti”, diremmo mai “banda delle Brigate rosse?” o “banda dei 5 stelle”?) e dall’altra sfrutta un nome noto, per vendere più giornali.
All’inizio, Ulrike vede in Gudrun – va a intervistarla in carcere all’indomani del processo per gli incendi nei grandi magazzini del 1968 – un’anima gemella: entrambe con una formazione religiosa, entrambe studiose e militanti, entrambe madri. È affascinata da questa bionda alta e assertiva che ha messo in atto ciò che Ulrike oscuramente sente già di voler fare a sua volta, senza averne ancora il coraggio. Se Ulrike è saltata fuori dalla finestra dietro a Baader, è perché c’era anche Gudrun con lui.
Poi è probabile che Ulrike abbia subito il fascino muschiato e selvatico di Baader, e questo abbia scatenato l’inconscia gelosia di Gudrun (sono duri a morire, certi schemi – culturali o biologici? – nonostante tutta l’emancipazione, la modernità, la libertà sessuale). La gelosia, più o meno latente, sommata agli errori commessi da Ulrike agli occhi di Gudrun, sommati al peso del nome blasonato a livello mediatico, sommato alle condizioni psicofisiche in cui a un certo punto entrambe si ritrovano – dopo scioperi della fame, alimentazione forzata, isolamento totale, clausura assoluta e impossibilità di confrontarsi con altri che non fossero sempre gli stessi, o il giudice e gli avvocati durante il processo – conduce a ciò che Von Trotta in Anni di piombo definisce «il solito duello mortale tra sorelle». Quella pulsione oscura di cui non si parla e non si può parlare, che spinge le sorelle a lottare a volte sanguinosamente per ottenere la preferenza della madre. Nel caso di Ulrike e Gudrun, la preferenza di Andreas, da una parte, e la supremazia nella RAF dall’altra.

Anche Ulrike era madre, una madre diversa rispetto a Gudrun. Ulrike abbandona completamente i figli e cerca di dar loro uno stile di vita in linea con la sua ideologia dove, detto tra noi, non era compreso un futuro.

Prima di darsi alla lotta armata, Ulrike mete in atto un progetto di deborghesizzazione delle sue gemelle. Come ricorda Bettina, che ancora si stupisce che Meinhof sia ricordata come una madre attenta e premurosa, in realtà Ulrike è stata sempre molto concentrata sul suo lavoro. Scrivere le richiedeva un grande sforzo: Bettina la ricorda nel suo studio, che chiedeva di essere lasciata stare, la sigaretta accesa perennemente in mano o tra le labbra. Spesso componeva articoli meravigliosamente scritti, come quello in cui spiega – e da qui in poi parafraso – come vita privata e vita pubblica siano profondamente interconnesse, e che la prima è tanto politica quanto la seconda, e dunque non si può manifestare per i diritti in piazza e poi rientrati a casa picchiare i figli. Perché l’educazione dei figli è «spaventosamente politica», e i figli vanno seguiti, accuditi, hanno bisogno di un ambiente caloroso. Tutto questo però ricade solo sulla madre, che dunque è chiamata a una impossibile conciliazione. E siccome è «difficile, difficile, tremendamente difficile, sì è difficile» essere una madre e restare una persona, garantire il benessere della famiglia e continuare ad agire nel mondo, l’aut aut è: o dentro, o fuori. E allora, si comincia «…con il lasciare la famiglia».
Come spesso accade ai rivoluzionari, l’elaborazione intellettuale, lucida, acuta, corretta, non si accompagna a una messa in pratica di tutti i lucidi, acuti, corretti ragionamenti teorici. Infatti Ulrike mentre scrive dell’importanza, per i bambini, di vivere in un ambiente familiare di un certo tipo, trascura il suo, di ambiente familiare. E decide che le sue figlie non saranno borghesi: dunque passa le notti in bianco a fumare bere discutere e scrivere, e la mattina non si alza per svegliarle e prepararle per la scuola, non dà loro la merenda, non le pettina, fa sì che escano di casa trasandate e partecipino alle feste di compleanno senza portare un regalo al festeggiato. E poco importa che Bettina e Regine, che hanno 5-6 anni e ci tengono ad avere le loro trecce bionde fatte bene, i loro giocattoli, una vita scolastica e sociale come gli altri bambini, tentino di opporsi, come possono opporsi le bambine alla madre. Ulrike non cede.
La donna che pur di non mettere a rischio le gemelle che portava in grembo non prendeva medicinali per le sue terribili emicranie – provocate da un tumore benigno che verrà estirpato solo dopo il parto e che, secondo alcuni, ha contribuito se non determinato l’evidente cambiamento di personalità della Meinhof – diventa la donna disposta a sradicarle, a lasciarle in mano a estranei poco accudenti. La donna che non risponde alle lettere delle figlie, che smette di volerle vedere, che si impicca il giorno della festa della mamma. La donna che, nell’ultima missiva a Bettina e Regine, le esorta a non essere «tristi perché la mamma è in carcere. È meglio essere arrabbiate che tristi».
È stato molto faticoso e doloroso, per me, affrontare il tema di queste due maternità interrotte. Laddove la sofferenza inferta da Ensslin credo abbia fatto molti meno danni di quella procurata da Ulrike, che abbandonò due bambine di otto anni, dunque ben più consapevoli di Felix che non aveva nemmeno un anno quando Gudrun se ne andò.
Non è un caso che abbia deciso di dedicarmi a Gudrun Ensslin. Il rapporto di Ulrike con le sue figlie è ancora, per me, qualcosa che non riesco ad affrontare in maniera adeguatamente distaccata. Mi piacerebbe però, più avanti, trarne l’ossatura per un romanzo.

Gudrun, uguale e diversa rispetto a Giovanna D’arco, ma uguale e diversa anche rispetto a Ulrike.

Giovanna parlava di amore, Gudrun esortava a esercitare l’odio 24 ore su 24. Giovanna era una ragazzina analfabeta (ma non “contadinella ignorante” come ci hanno sempre fatto credere), con una buona dose di pensiero critico, finanche scettico, nei confronti di certe credenze popolari, che tirava in ballo le sue “Voci” quando si trattava di farsi ascoltare dai vari reali o signori della guerra, ma una volta ottenuto lo scopo smetteva di citarle. Gudrun all’università studiò filosofia, germanistica, inglese, in diversi le riconobbero un afflato pedagogico che avrebbe potuto mettere a frutto come assistente sociale. Ma, come fa dire Von Trotta alla sorella maggiore di un anno, nel film Anni di piombo: «Potevi andare in Africa, a fare qualcosa di concreto. Ma, primo: troppo faticoso. Secondo: quotidiano e poco spettacolare». Giovanna si mise alla testa di un esercito e ottenne lo scopo che si era prefissata. Gudrun non riuscì a farsi seguire che da un manipolo di ragazzini e ragazzine scappati dai riformatori, senza famiglia, spesso drogati, non certo un esercito – per quanto altisonante suoni il nome “Frazione dell’Armata Rossa”. Il popolo tedesco, che Gudrun e gli altri volevano risvegliare, non sposò se non in minima parte la loro battaglia. Il premio Nobel Heinrich Böll parlò di quest’ultima come della battaglia «dei 6 contro 60 milioni».

Il processo che vede come imputata Gudrun è avvolto da un’atmosfera quasi surreale.  Per comprenderne l’ottica è fondamentale affrontare anche questo punto. Fino a che limite l’agire di questa donna può essere giustificato?

La linea di difesa che Gudrun e gli altri membri RAF, e i rispettivi avvocati, avrebbero voluto sostenere durante il Processo di Stammheim è la seguente: noi non siamo criminali né terroristi, siamo guerriglieri e compiamo azioni militari ai danni di basi militari statunitensi americane su suolo tedesco. Basi da cui partono gli aerei che poi sganciano il napalm in Vietnam, bruciando donne, bambini e civili innocenti. Dunque volevano essere giudicati secondo le leggi del diritto marziale, le stesse che chiedevano fossero applicate anche per giudicare i soldati americani. Per quanto possa essere opinabile, come tutte le tesi, qualche dubbio sulla sua giustezza non può non venirci. Come disse Vesper nella sua arringa per difendere Gudrun al processo del ’68: «Stiamo qui a giudicare le persone che bruciano i materassi, ma non giudichiamo i soldati che bruciano i bambini».
Come ricorda Barbara Sukowa – la grande attrice tedesca che in Anni di piombo presta il suo volto a Gudrun Ensslin – nella lunga e preziosa prefazione al mio libro, il clima all’epoca era davvero incandescente. C’era dappertutto una spasmodica volontà di contestazione. Si manifestava per tutto, spesso senza nemmeno una vera cognizione di causa. Gudrun e gli altri semplicemente passarono dalla teoria alla prassi. Avendo sempre bene in mente di non voler in alcun modo colpire i civili – infatti l’inizio dell’espulsione di Meinhof dal gruppo coincise con l’attentato alla redazione di Springer, che controllava il 70% delle testate giornalistiche e pendeva spregiudicatamente a destra, in cui finirono feriti anche semplici giornalisti e grafici. Gudrun e Andreas non perdonarono mai a Meinhof di aver pianificato questo attentato, che tra l’altro fu l’unico orchestrato da Ulrike, il cui percorso da terrorista è fatto più di errori grossolani che di azioni efficaci.
La prima generazione RAF mise a segno un numero esiguo di attentati ai danni di militari, e in questi assalti uccisero 5 militari. L’escalation della violenza, sebbene innescata da Baader, si ebbe dopo, con la Seconda generazione, che invece cominciò a praticare una violenza efferata, uccidendo banchieri, giudici e relative scorte, ecc.
La reazione dello Stato e della giustizia alle azioni di Gudrun e compagni fu sicuramente sproporzionata, isterica. Come dice Aust, lo Stato cadde nella trappola che i terroristi gli avevano teso. I fondatori della RAF partivano dal presupposto lo stato fosse fascista – in un momento storico in cui, a conti fatti, non lo era – e lo Stato reagì alle loro azioni – eclatanti e mortali, certamente, ma limitate, e si mosse nei loro confronti mettendo in atto metodi, quelli sì, fascisti. E alla fine, la premessa errata divenne una profezia che si autoavvera: torture come l’isolamento assoluto per mesi interi in camera anecoica o l’alimentazione forzata (effettuata infilando in gola fino allo stomaco un tubo di gomma del diametro identico a quello dell’esofago), collasso dello stato di diritto – per cui il processo si tenne anche in assenza degli imputati, o alla presenza di imputati che non erano nelle condizioni psicofisiche per sostenere un dibattimento in aula, e sostituendo d’arbitrio gli avvocati di cui si fidavano con altri d’ufficio, intercettazioni con microspie nelle celle e nelle sale di visita con i legali, alla faccia del segreto professionale… Il processo di Stammheim fu una farsa, più vicina a una pièce di Beckett che a un procedimento legale. Si concluse con una condanna all’ergastolo per tutti, il 28 aprile 1977. E poco dopo ci fu il suicidio collettivo, la “notte di Stammheim”, tra il 17 e il 18 ottobre 1977.

Per concludere, al suo libro ha allegato la corrispondenza che Gudrun teneva con l’esterno. Lettere che, spesso, venivano sequestrate e, alcune delle quali, furono recapitate alla sorella anni dopo il suo suicido.  Se analizzate oggi, dove c’è una maggior consapevolezza di fatti, circostanze e condizioni, cosa ci dicono in più di questa figura?

Ci dicono, mi tocca ripeterlo, che abbiamo a che fare con un enigma indecifrabile.
Nelle lettere alla sorella Gudrun elenca nel dettaglio beni per la cura del corpo e vestiti, ordina di voler ricevere un certo tipo di matita per gli occhi, un certo tipo di calze, un certo tipo di maglioni.
Oppure parla dei genitori e del figlio, per brevi accenni secchi, mai troppo lunghi né tantomeno sentimentali. Oppure elabora il suo pensiero politico, invero piuttosto strutturato, solido, a tratti anche convincente. Leggendo le sue parole, a me viene da chiedermi, da chiederle: chi te l’ha fatto fare? Cosa volevi ottenere? Cosa pensavi che avresti ottenuto? Che senso ha avuto?
E ancora: come hai fatto a resistere alla fame, al freddo, alla solitudine? Tu che amavi lo shopping, come sei riuscita a rinunciare drasticamente alla vita comoda? Intendo proprio a livello pratico: quale pensiero, quale ragionamento ti ha sorretto nei mesi, negli anni, in cui sei stata nascosta in case che non erano la tua o chiusa in una cella?
Ne è valsa la pena?
Io ho dedicato due anni della mia vita a studiare questa esistenza. E mi restano molte più domande che risposte, nonostante le quasi 300 pagine di libro che ho scritto, i film che ho visto, le analisi che ho elaborato, gli incontri che ho fatto. Una cosa sola so: che parlare di lei mi ha portato a riflettere su di me, sulle donne che mi circondano, sulla situazione e sul mondo in cui viviamo. A confermare ciò che pensavo già, ovvero che la lotta armata, la violenza, la rabbia, l’odio, la guerra – tutto ciò che Gudrun ha professato come credo – non siano la strada vincente. E dall’altra ad approfondire una fragile intuizione, ovvero che l’unica rivoluzione che varrebbe la pena fare, e che davvero provocherebbe un mutamento reale, è quella antropologica, dell’essere umano. Come Fassbinder, come Gandhi, come Buddha, credo che l’unica rivoluzione che varrebbe la pena fare, l’unico cambiamento che produrrebbe un vero cambiamento del mondo, è quella interiore. Resto convinta che non abbia senso scendere in piazza a manifestare per la pace, e poi comportarsi, parlare, pensare in modo sessista/razzista/violento in casa, con gli amici, tra sé e sé, o banalmente prendersela per un piccolo sgarbo, non perdonare piccole offese, parlare alle spalle anziché avere il coraggio di affrontare le persone vis à vis. I grandi proclami, le grandi discussioni, le grandi adunate sono retorica, e non hanno avuto né hanno alcuna incisiva e duratura ricaduta sulla realtà. E quelle che invece l’hanno avuta – penso a certe battaglie delle donne, grazie alle quali oggi sono libera di scrivere quello che voglio, vestirmi come voglio, guidare, divorziare, scegliere se abortire, etc. – sono sempre a rischio (vedi la legge sull’aborto in America, vedi cosa sta succedendo in Iran, vedi le migliaia di casi “Giulia Cecchettin”). Tanto è stato fatto ma tanto resta ancora da fare. Oggi come oggi, nella nostra epoca dematerializzata, virtuale, ombelicale, isterica, individualista e fragile, l’unica realtà su cui possiamo agire è la nostra, intima: coltivare un certo tipo di pensieri, che determineranno un certo tipo di comportamenti, che determineranno un certo tipo di azioni, che determineranno un certo tipo di ambiente e di mondo. Ognuno per sé, senza per questo asserragliarsi nel proprio ego, piccolo e meschino. Al contrario, lavorare su di sé per poi espandere quest’azione sugli altri, tenendo alto lo sguardo, per comprendere una porzione di spazio, di mondo, di altri, più ampio. Se cambio io, cambierà inevitabilmente anche il sistema di cui faccio parte. Se cambiassimo tutti…
Dovremmo smetterla, insomma, di concentrarsi sull’esterno, perché tutto – tutto – accade all’interno.
I bambini ancora oggi muoiono di fame: è un’oscenità aberrante e imbarazzante, e come questa ce ne sono tantissime altre. Evidentemente il progresso spirituale degli uomini e delle donne, a partire da quelli che ci governano, è stato nullo o non è stato nemmeno iniziato.
Se oggi, nel 2025, la situazione è quella che conosciamo, e peggiora costantemente, è proprio perché non siamo riusciti a procedere nel senso di un’elevazione spirituale. Sempre più materialistici, sempre più consumisti, non abbiamo capito – e il fatto che la Storia si ripeta sempre uguale lo dimostra – che la direzione da intraprendere era, è, tutta un’altra. E infatti abbiamo ancora conflitti come quello israelo-palestinese o in Ucraina… e ogni assemblea di condominio o chat whatsapp delle mamme della scuola primaria è una bomba a orologeria pronta a esplodere.
Finché saremo vittime del nostro ego, e della nostra arroganza, non abbiamo speranze.
Però io ho una figlia, e a lei ho dedicato Gudrun Ensslin. Attrice, madre, terrorista, prigioniera così: «Aspettavo te per fare la rivoluzione», e non posso permettermi di perdere la speranza.
È un percorso faticosissimo, difficilissimo, costellato di inciampi ed errori, io per prima mi accorgo di quanto tempo spreco continuamente a prendermela, a sentirmi ferita, ad arrabbiarmi per minuzie. Però nel mio piccolo resto vigile, e promuovo questa mia personale idea di rivoluzione. Partendo dal libro, partendo da Gudrun. Partendo dai bambini, perché è nell’infanzia che, per tutti, si gioca l’intera partita a venire.
Dunque il tentativo è conciliare la professionista, la mamma, la moglie, la scrittrice, la parte di una comunità scolastica e la parte di una comunità parrocchiale, la figlia, la nuora, la sorella, la zia, l’amica, la direttrice editoriale, la collega, la femminista. La fragile e la forte, l’attenta e la distratta, quella che sa di doversi migliorare e quella che preferirebbe cambiassero prima gli altri, quella che a volte getterebbe la spugna e quella che alla fine ricomincia ogni giorno, ogni minuto.

Mara Cozzoli

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