Hanna Arendt, La banalità del male.
Hanna Arendt è stata filosofa allieva di Heidegger e Karl Jaspersh, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense.
Emigrata in Francia a causa delle persecuzioni, nel 1937 si vede ritirare la cittadinanza da parte della dittatura nazista, trovandosi conseguentemente nella condizione di apolide fino al 1951 , anno in cui ottiene la cittadinanza statunitense.
Gli scritti della Arendt riguardano principalmente la natura del potere, la politica e il totalitarismo.
“La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme” è un saggio la cui prima edizione in lingua originale risale al 1963 con pubblicazione in Italia l’anno successivo.
Inviata del New Yorker, propone qui, un resoconto circa il processo che porta Otto Adolf Eichmann, criminale nazista, sul banco degli imputati con ben quindici capi d’imputazione a cui rispondere.
Al di là della ricostruzione particolareggiata di quanto avviene prima durante e dopo la presa di potere del regime in tutta Europa, l’autrice induce a una serie di riflessioni circa l’origine del male.
Sequestrato in un sobborgo di Buenos Aires, Eichmann, faccendiere tedesco, considerato uno dei maggiori responsabili di quella che nel corso del processo è definita “Soluzione Finale”, viene condotto dinnanzi al Tribunale Distrettuale di Gerusalemme.
Stanco di vivere nell’anonimato, appena si rende conto che gli investigatori stanno stringendo la morsa intorno a lui decide di farsi catturare.
“Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”.
“Impiccatemi pubblicamente come monito per tutti gli antisemiti di questa terra”.
“Il pentimento è roba da bambini”.
Male, ciò che è contrario alla giustizia, alla morale.
Nell’accostamento Male/Eichmann, inevitabilmente, si giunge a una domanda: l’uccisione di esseri umani ha mai provocato in lui crisi di coscienza?
Le pagine descrivono un uomo incapace di commuoversi, indifferente, mai turbato, neanche dinnanzi all’accusa di avere ucciso milioni di persone. Sicuro di se stesso e di quanto afferma.
Atteggiamenti fieri, arroganti e sotto certi aspetti istrionici.
Studioso di Kant e della “Critica della ragion pratica”, ne applica i principi seguendo una sua logica distorta: “Agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe”, sappiamo infatti, che l’etica kantiana si fonda sulla facoltà di giudizio e non sull’obbedienza a un comando.
Stando a questo, Eichmann risulta essere un mediocre burocrate del male, privo di percezione e discernimento. Non si ritiene in alcun modo responsabile, in quanto, semplicemente svolgeva il suo lavoro, ovvero rispettare le Leggi del suo Paese.
Direttive guidate da insensata onnipotenza sull’essere umano, miranti a strappargli dignità.
Ci troviamo di fronte alla volontà di un sistema, il cui obiettivo è portare il sottomesso a rinunciare all’idea di lottare, fino a fargli perdere personalità e identità: annientarlo spiritualmente per imprigionare e rendere schiava un’ intera comunità, eliminandone le radici culturali.
“Gli ebrei erano raggruppati in una grande stanza; ricevettero l’ordine di spogliarsi; poi arrivò un camion che si fermò proprio dinnanzi all’ingresso della stanza e gli ebrei nudi vi furono fatti entrare. Gli sportelli si richiusero e il camion partì. Non so dire, cercavo di non guardare. Le grida e… Ero troppo sconvolto e corsi via. Poi seguii il camion, e vidi la cosa più orribile che avessi mai visto in vita mia. Il camion si fermò davanti a una fossa, gli sportelli si aprirono e i corpi furono buttati giù; sembravano ancora vivi tanto le membra erano flessibili”.
Riconosce i crimini avvenuti, racconta di stermini e assassini legalizzati dallo Stato.
Comprovata la sua fedeltà a Hitler, asserisce che gli ordini di quest’ultimo hanno forza di Legge e che non devono necessariamente essere scritti, vale quindi la consuetudine.
Non prova alcun rimorso nei confronti della sofferenza impartita, per l’ovvio fatto che il male è la regola reggente il Nazionalsocialismo, dettame che mai avrebbe infranto.
Un semplice funzionario dunque, insignificante, superficiale ( ben lungi, attenzione, dal poter essere considerato squilibrato) e privo di un suo pensiero personale; arriva a dichiarare, in seguito alla caduta del Nazismo la problematicità di una vita in assenza di un capo che ne decreta i precetti.
La totale incapacità del soggetto in questione nel crearsi una propria visione è ciò che lo spinge ad abbracciare un sistema politico, incautamente.
Scrive la filosofa: “Restai colpita dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco e mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o specifiche condizioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento fu: non stupidità, ma mancanza di pensiero.”
Ciò che si evince è orribile: Eichmann non ha nulla di demoniaco, come inizialmente pensava Hanna, bensì, rappresenta in terra, coloro che, senza considerare e ragionare in merito a quanto è giusto o sbagliato, possiedono l’inclinazione ad eseguire, così come stupide pedine, giochi privi di fondamenta.
Terribile è la storia quando mette difronte all’evidenza che non esiste e non esisterà mai un solo Eichmann, ma quest’ultimo ingloba in sé una collettività di individui.
Hanna Arendt giunge alla conclusione che:“ Il male non può mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possiede né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale “.
Il bene è insito nell’uomo, deriva dall’intelletto, dal cuore. Il male, di contro, non ha basi, non è generato da niente, neanche da acredine, rifiuto e intolleranza, deriva invece da una penosa inettitudine all’analisi e al giudizio.
Il saggio si sofferma anche sulle modalità con la quale il processo ha avuto luogo: secondo la scrittrice, il colpevole avrebbe dovuto confrontarsi con un tribunale internazionale.
Heichmann secondo la filosofa, non ha commesso un crimine unicamente contro un popolo, ma contro l’umanità intera.
Eliminare un’etnia dalla terra, corrisponde ad amputare il genere umano di una sua parte integrante e funzionale.
“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale,
né demoniaco né mostruoso”.
Restano due punti aperti e attuali, sul quale occorre aprire un dibattito: Se fossimo vissuti in quel contesto storico, avremmo contrastato o sostenuto la maggioranza? Se la storia si ripetesse, seppur con metodologie dissimili e intensità inferiori, ma il cui non senso rimane analogo, come agiremmo?