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Milano più sociale. Periodico di informazione online

McQueen 3188.

| Mara Cozzoli |

Chi è stato davvero  Terence Steven  McQueen?
Ombroso, tenero, aggressivo, ribelle fin da bambino, solitario, sempre coerente con le sue scelte e passioni.
Uomo alla costante ricerca di equilibrio, personalità controversa del cinema internazionale, la sua figura abbracciò diverse sfere: sociale, intima e psicologica
Noto al grande pubblico per i suoi atteggiamenti spericolati  e tipici dell’ antieroe, fu un attore complicato da  gestire per  registi e produttori.

Sul set de “I magnifici sette del 1960, spesso ridicolizzò e rubò la scena al collega  Yul Brynner.

Vi è però  un particolare relativo ai suoi ultimi anni di vita che non tutti conoscono: la conversione al cristianesimo.
Partiamo da un breve stralcio d’intervista.
Alla domanda: “Crede in Dio?”, con strafottenza affermò: “Io, credo solo in me stesso; Dio sarà il numero uno finché io sarò il numero uno”.

I magnifici sette, 1960

La vita spesso prende pieghe inaspettate.
Correva l’anno 1978, quando con Barbara Minty si trasferirono in un ranch, accoccolato tra le colline lievemente ondulate della Santa Clara Valley,
Fu in questo luogo idilliaco che avvenne l’incontro con Sammy Mason, pilota collaudatore in pensione, ancora spericolato, ma cristiano devoto.
Prova vivente agli occhi di McQueen di quanto virilità e fede non si escludessero a vicenda.  Il vecchio Sam divenne suo istruttore di biplano, successivamente suo migliore e inseparabile amico. Al primo impatto, Steve, sentì subito come questa persona fosse lontana anni luce da tutti coloro che fino a quel momento gli ruotarono intorno.
Passo dopo passo, tra una Old Milwaukee e l’altra, iniziarono ad affrontare discorsi molto profondi, in particolare su quale fosse il senso della vita. 
Arrivò il momento in cui “The king of cool” chiese all’amico cosa facesse la differenza nella sua vita. La risposta arrivò pronta: Gesù Cristo.
Iniziò a frequentare la Missionary Church, insieme a Mason e alla sua famiglia. “Why my Lord “(cantico di Kris Kristofferson) divenne per lui una sorta di testimonianza personale: pastore della comunità, Leonard De Witt.

Dieci anni prima, “domenica” significava sfrecciare su una moto con qualche piacevole intervallo, comprendente donne e birra. Ora, si faceva la barba, indossava abiti puliti e guidava per quindici miglia fino alla costa, alla chiesa missionaria a Ventura. Per tre mesi, in completo anonimato si mischiò alla congregazione.
“Mi piace questa serenità, trovarsi nella casa di Dio è meraviglioso, è il massimo. Sono le chiacchiere che non sopporto”.
Il giorno seguente, a pranzo, confessò di essere stanco e malato di Hollywood, di aver condotto una vita sregolata e senza Dio.
Ne derivò un botta e risposta: “Desideri rinascere?”
“Sì”.

Appartenenti alla vecchia cerchia di amici guardarono con occhio cinico questa conversione. Qualcuno sostenne che la consapevolezza di una morte vicina lo avesse portato a tentare una sorta di assicurazione sulla vita.
De Witt   affermò con certezza che: “Quella di Steve, fu una conversione sincera. Il cristianesimo è stato un tutt’uno con l’abbandono di Hollywood e la ricerca di nuovi valori. Ne parlavamo per giorni interi”.
McQueen, non solo partecipò alle messe domenicali, ma ogni giovedì alle sette, ora in cui solitamente rollava il primo spinello, iniziò a frequentare un gruppo di studio della Bibbia battista.

Nel 1979, dividendosi tra chiesa, aeroplani e pezzi di antiquariato al ranch, per la prima volta Steve apparì un uomo completo, anziché qualcuno che cercava in tutti i modi di interpretarne il ruolo.
Negli istanti in cui il cancro lo stava uccidendo, a Barbara ripeté spesso di sentirsi in pace grazie a un nuovo verso letto nella Bibbia, verso che poi divenne il suo preferito. Giovanni, 3,16: “Poiché Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non muoia ma abbia vita eterna”.
Nel momento in cui annunciò la sua malattia, pronunciò le seguenti parole: “Il mio corpo va in frantumi, ma il mio spirito è integro”.

Neilie Adams e Steve McQueen

Si dice che morì sussurrando e scandendo un numero: Tre- uno- otto- otto: il suo numero di matricola al riformatorio, nello specifico alla California Junior Boys Repubblic di Chino; sul comodino, posto al fianco del suo letto, una Bibbia.

Scopo di queste righe, non è raccontare un uomo che a un certo punto ha voluto tramutarsi in Santo, o narrare una conversione tardiva o opportunistica. Il mio fine è testimoniare un uomo che, come tanti, attraverso il Cristianesimo trovò quella tranquillità d’animo che gli permise di superare i traumi di una “vita incasinata ancora prima che nascessi” (riprendendo le sue stesse parole).

Nato per sbaglio da una notte di pseudo amore tra una baby- prostituta alcolizzata e un ex aviatore donnaiolo, dedito al gioco d’azzardo e altrettanto alcolizzato, che abbandonò entrambi sei mesi dopo nascita del piccolo, bambino non voluto e trascurato la realtà lo costrinse ai repentini passaggi da un letto all’altro della madre (dal cui compagno di turno subì abusi), obbligato a sistemazioni di fortuna e continue partenze, un giorno chiese a colei che il 24 marzo 1931 lo diede alla luce: “Cosa abbiamo che non va, mamma?”

Visse un’infanzia in assoluta povertà. 
L’approccio alla fede gli permise di riflettere sul male involontariamente compiuto nei confronti di chi lo amò a trecentosessanta gradi, analizzò la sua esistenza con estrema lucidità, tanto da ammettere con franchezza quanto fosse stato malestruo.
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Si spense il 7 novembre 1980  in Messico.

Steve si calò in ogni personaggio interpretato, quasi stesse mettendo in scena se stesso, il proprio essere, vita e sofferenza: personaggi quindi, mai scelti a caso.
Ogni emozione trasmessa fu il risultato non solo di potenti doti artistiche ma di esperienze vissute, sulla propria pelle.

Magistrale  nel 1973 in “Papillon” accanto a Dustin Hoffman e, quello stacco finale: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”, risuona ancora oggi come una vera e propria risposta alla critica che malignamente e in modo spropositato lo attaccò.

“The great escape
”, “La grande fuga”, del 1963 è  emblema della ricerca di libertà, intesa non solo in senso fisico ma anche mentale.

Tom Horn 1980,  nel quale l’eroe disilluso  e abbandonato rinuncia a difendersi, andando  incontro a una condanna a morte per impiccagione,

The Great Escape, 1963

Nel 1972, sul set di “Get Away” diretto da Sam Peckinpah conobbe Ali McGraw, con la quale si sposò nel 1973:  il matrimonio durò fino al 1978.

Infine cito “Bullit datato 1968, nel quale il protagonista, un tenente di polizia dal fascino misterioso risulta essere diffidente, di poche parole e noncurante di un sistema corrotto
Anche qui, un chiaro riferimento allo spirito di McQueen.

Papillon, 1973

 Al termine dei suoi giorni, imparò  ad amare la vita e, cosa non da poco, morì con estrema serenità: “Ora che sono diventato cristiano, ho un motivo ancora più importante per vivere. Io, voglio vivere, ma se non sarà così, so dove andrò”.

In tutto ciò, fu soprattutto un padre perfetto.
Ai  figli Chad e Terry, diede tutto l’amore del mondo e cercò di essere sempre presente.


Tom Horn, 1980

Dietro ai continui tradimenti un disperato bisogno d’approvazione e terrore di perdere l’amore.

In “My Husband, my friend”, Neilie Adams, sua prima moglie scrisse: “Abbiamo condiviso insieme tanti anni, quanti più della mia vita. Adesso non ci sei più, ma è stata una grande corsa”.

Steve McQueen e Ali McGraw in ” Get away”,  1972

Ali McGraw e Steve McQueen in “Get Away”, 1972

“The Great Escape”, 1963

Mara Cozzoli

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