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Relazione tra fame e conflitti armati. Intervista a Valeria Emmi, Networking and Advocacy Senior Specialist, Fondazione Cesvi.

L’effetto combinato di conflitti armati, pandemia e cambiamento climatico rischia di polverizzare tutti i seppur lenti progressi compiuti negli ultimi anni verso l’obiettivo Fame Zero”, fissato dalle Nazioni Unite al 2030. Dopo anni col segno meno, nel 2020 la percentuale di popolazione denutrita nel mondo è tornata a salire: sono 155 milioni le persone in stato di insicurezza alimentare acuta, 20 milioni in più rispetto al 2019. La lotta alla fame nel mondo registra dunque una pesante battuta d’arresto con previsioni sul futuro a tinte fosche. Secondo l’Indice Globale della Fame 2021, in 47 Paesi in particolare la fame resta eccezionalmente elevata con scarse possibilità di ridurla a livelli bassi entro la fine del decennio.
Per meglio approfondire quanto sta accadendo, dialogo oggi con Valeria Emmi, Networking and Advocacy Senior Specialist, Fondazione Cesvi.

Buongiorno dottoressa Emmi, come prima cosa, raccontiamo che tipo di attività svolge Fondazione Cesvi.

Fondazione Cesvi è un’organizzazione umanitaria e di sviluppo che interviene in 23 Paesi, Italia compresa, per aiutare i più fragili, sia in situazioni di emergenza, come per esempio in Paesi afflitti da conflitti, quanto in aree colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici che sappiamo essere drammatici per le comunità che vivono situazioni di precarietà. Siamo intervenuti anche all’apice dell’emergenza sanitaria da Covid 19 e continuiamo il nostro lavoro ancora in questa fase pandemica.
I nostri progetti di sviluppo invece guardano al medio e lungo termine per garantire i diritti umani, tra  i quali l’accesso al cibo e all’acqua, con interventi mirati e multisettoriali di lotta alla fame, per garantire la sicurezza alimentare e per sviluppare la resilienza affrontando e superando gli aspetti negativi e drammatici dei cambiamenti climatici.
Supportiamo, inoltre, attività di generazione di reddito, al fine di creare condizioni di sviluppo in partnership con le organizzazioni e le comunità locali.

Nello specifico, posso chiederle in quali parti del mondo operate?

Lavoriamo trasversalmente in Africa, Asia, e America Latina. Anche in Europa, dove operiamo con una grande attenzione al nostro Paese attraverso programmi di protezione per bambini e bambine, di contrasto al maltrattamento all’infanzia e alla povertà in tutte le sue declinazioni.

Ho avuto modo di seguire la vostra conferenza relativa all’ Indice Globale della Fame, le chiedo se può entrare, per coloro che non sapessero ciò di cui stiamo parlando, nel tecnico di cosa consiste tale indice.

L’Indice Globale della Fame è giunto alla sua sedicesima edizione; Fondazione Cesvi ne cura l’edizione Italiana. Si tratta di un rapporto che, ogni anno, propone una graduatoria di alcuni Paesi, considerati i più afflitti da fame;  la malnutrizione viene quindi intesa e analizzata come inadeguata assunzione di cibo, sottonutrizione e causa di mortalità infantile.
Il GHI (Global Hunger Index) analizza nel corso degli anni gli eventuali progressi nella lotta alla fame, quali sono e quanto sono consistenti, o se, come quest’anno, ci sono stati degli arretramenti.
Inoltre, il GHI affronta annualmente un tema specifico, una problematica che incide sui livelli di fame nel mondo e il legame che tra questi intercorre attraverso la lettura del contesto che stiamo vivendo.

Parliamo di un indice che si basa  su indicatori specifici. Quali sono?

Gli indicatori analizzati e calcolati sono quattro. Il primo riguarda la denutrizione della popolazione tutta. Per denutrizione si intende l’insufficiente assunzione di cibo.
Gli altri tre indicatori invece riguardano la popolazione infantile, bambini e bambine al di sotto dei cinque anni, analizzati sotto due dimensioni, quelle della sottonutrizione e della mortalità infantile. Per la sottonutrizione vengono utilizzati due indicatori, il deperimento e l’arresto della crescita. Misuriamo così la natura acuta e cronica della fame.
Nello specifico, il deperimento è il peso insufficiente di un bambino o bambina in relazione alla sua altezza, ciò pone l’accento sul fatto che abbiamo un problema acuto di fame. 
L’arresto della crescita, ovvero quando l’altezza è insufficiente per l’età, indica che c’è un problema cronico nello sviluppo del bambino.
Ultimo indicatore è la mortalità infantile, esito estremo e drammatico della fame, che comprende tutti quei bambini che non raggiungono i cinque anni di età.
Il numero di Paesi presi in considerazione dall’Indice varia, leggermente, di anno in anno, perché occorre avere a disposizione i dati sui quattro indicatori che ho menzionato, e non sempre questo è possibile.

Circa quest’anno, di quanti Paesi possedete i dati effettivi?

Di quest’anno, possediamo i dati di 116 Paesi, ma arriviamo a 125, con 19 Paesi in più in questa edizione, per i quali pur avendo dati insufficienti, abbiamo calcolato provvisoriamente il livello di gravità della fame secondo la scala di gravità dell’Indice.
Nel GHI non vengono calcolati i dati per tutti i paesi del mondo e non sono considerate le cause di malnutrizione quali l’obesità o il sovrappeso, ma si prendono in esame solo quelle legate all’inadeguata assunzione di cibo, sia in quantità che in qualità.
La scala di gravità del GHI va da un livello di fame basso a un livello estremamente allarmante, che viene attribuito secondo il punteggio calcolato in base ai dati dei quattro indicatori, che va da zero a cento, due estremi che non vengono mai raggiunti. Secondo il cosiddetto punteggio di GHI, possiamo dire se un Paese ha un livello di fame basso, moderato, grave, allarmante o estremamente allarmante.
Per darle un dato puntuale, oggi in quarantasette Paesi sui centoventicinque calcolati, la fame rimane grave, allarmante o estremamente allarmante.
L’indice fa una valutazione a livello globale, regionale e nazionale, oltre a porre attenzione anche alle numerose differenze sub nazionali.
A livello regionale, l’Africa a Sud del Sahara ha le percentuali di denutrizione, arresto della crescita e mortalità infantile più alti rispetto alle altre regioni.
Infatti, se quarantasette Paesi tra quelli analizzati non raggiungeranno il livello di Fame Zero entro il 2030, ovvero l’obiettivo di sviluppo sostenibile definito dalla comunità internazionale, ventotto di questi si trovano in Africa Subsahariana.
Altra regione che desta particolare preoccupazione è l’Asia Meridionale, anch’essa con livelli di fame tra più alti al mondo e in particolare il più alto tasso di deperimento infantile tra tutte le regioni analizzate, e che è stimato del 14%.

Cosa sta accadendo  in Somalia?

La Somalia ha un livello estremamente allarmante di fame. 
È la prima volta che riusciamo a ottenere i dati di tutti e quattro gli indicatori per questo Paese. In precedenza, la gravità della situazione di fame in Somalia era evidente per gli alti tassi di mortalità infantile, molto spesso tra i più alti rispetto ai Paesi analizzati dal GHI in effetti. Oggi, grazie alla disponibilità di dati per i quattro indicatori abbiamo piena evidenza di una situazione davvero drammatica, essendo la Somalia il Paese con il punteggio GHI 2021 più alto, pari a 50.8, che lo pone a un livello di fame estremamente allarmante.
È un caso davvero peculiare perché in questo Paese ritroviamo tutte le principali e più gravi cause della fame, quelle che nel GHI vengono definite le tre C: conflitti, cambiamenti climatici e Covid 19.
I conflitti, perché la Somalia vive ormai da tempo forti ostilità interne. L’impatto dei cambiamenti climatici è evidente dal nuovo rischio di carestia che il Paese sta vivendo, con una siccità diffusa e crescente alla quale si è aggiunta nel 2020 un’invasione di locuste che ha distrutto di fatto tutti i raccolti.
Infine, il Covid 19 che ha colpito una popolazione in un contesto già altamente fragile e precario.  

Per quale motivo siete riusciti a impossessarvi solo ora dei dati relativi alla Somalia?  In generale, come riuscite a reperirli?

La principale causa è la conflittualità armata.
I dati si ottengono dalle analisi a livello governativo centrale e statistiche raccolte da agenzie multilaterali, quali ad esempio la FAO.
Poiché i dati, le evidenze, mettono in luce le problematiche esistenti si cerca di gettare delle ombre.
Inoltre, c’è un uso ricorrente della fame come metodo di guerra così come il frequente rifiuto di concedere l’accesso agli aiuti umanitari.
Raccogliere e comunicare informazioni è anche un atto di volontà politica, che implica una gestione della cosa pubblica. Per la Somalia nelle precedenti edizioni del GHI, riuscivamo a ottenere il dato relativo alla mortalità infantile che, come ho detto prima negli ultimi anni, è sempre stato il più alto tra tutti quelli dei Paesi presi in esame nel GHI.
Il monito che abbiamo sempre lanciato è la necessità di porre una grande attenzione alla questione, perché un livello così alto di mortalità infantile causato dalla fame, implica necessariamente anche alti livelli di arresto della crescita, deperimento dei bambini e delle bambine e denutrizione in tutta la popolazione.
I dati sulla popolazione infantile riguardano il presente ma ci danno delle indicazioni sulla tendenza futura: un bambino con arresto della crescita o deperito, avrà un’aspettativa di vita molto bassa; i problemi e le probabili malattie e infezioni che dovrà affrontare saranno di tipo non solo fisico ma anche cognitivo dovuti alla carenza di energie alimentari, proteine, micronutrienti, cioè dovute a un’inadeguata assunzione di cibo, tanto in quantità, quanto in qualità.

Le previsioni per il 2030 non sono rosee, anche in funzione di questa battuta d’arresto.

Infatti.
L’allarme che abbiamo lanciato il 14 ottobre nel corso della presentazione dell’Indice Globale della Fame, che avveniva in concomitanza con altri Paesi europei e non solo, è che la lotta contro la fame è pericolosamente fuori strada.
Rispetto all’Obiettivo Fame Zero da raggiungere entro il 2030 che la Comunità Internazionale si è dato nel 2015 e ancora prima nel 2000, emerge che non solo stiamo registrando da circa un paio d’anni una battuta d’arresto, ma anche una grave inversione di tendenza, ovvero un aumento più repentino della fame.
Questo ci porta a dire che se non si intraprendono azioni urgenti non raggiungeremo l’Obiettivo Fame Zero.
Nel 2020 certamente la pandemia ha contribuito ad aggravare questa situazione; basti pensare alle misure di contenimento adottate che, per bambini e bambine ha significato non avere accesso alla scuola, unico modo per poter avere un pasto quotidiano.


Entrerebbe nel merito del filo rosso, del rapporto fame / conflitti nel mondo?

Il GHI 2021 si è concentrato proprio sul nesso tra conflitti e fame.
Al momento, i conflitti armati sono cento sessantanove e  costituiscono i principali responsabili della fame nel mondo e dell’insicurezza alimentare.
Possiamo dire con certezza che nel 2020, nonostante la pandemia e i cambiamenti climatici, la crisi alimentare è stata causata prevalentemente dai conflitti, più che da qualsiasi altro fattore.
Questo due problematiche, legate in un circolo vizioso, devono essere affrontate simultaneamente, perché se non si risolve il problema fame, non avremo una pace duratura, e senza pace ci sono scarsissime probabilità di mettere fine alla fame nel mondo.
Molto spesso, come detto prima nei contesti di conflitto, la fame viene utilizzata come strumento di controllo e assoggettamento della popolazione, non c’è accesso ai mercati più ampi e molto spesso l’accesso gli aiuti umanitari viene impedito.



Secondo lei, è realmente possibile affrontare i problemi contemporaneamente? Se sì, in che modo?

Dobbiamo farlo.
L’indice ha anche l’obiettivo di fornire raccomandazioni agli Stati, ai Governi, ai Donatori, ai decisori politici.
Intervenendo in contesti di conflitto attivo o in Paesi estremamente fragili, ragioniamo su più livelli: garantire assistenza umanitaria nell’immediato, ma anche pensare in un’ottica di medio e lungo termine di sviluppo.
Cerchiamo di lavorare affinché si possa avere accesso a cibo in quantità e qualità sufficiente, sia attraverso il sostegno alla produzione agricola di piccola scala, sia sul mercato, ovvero interveniamo sui vari aspetti dei “Sistemi Alimentari”, dalla produzione al consumo.
Intervenire su questo stretto legame per una pace duratura e una efficace lotta alla fame è sicuramente complesso, ma necessario. Per questo chiediamo che il sistema multilaterale, ovvero l’Onu e i suoi Stati membri rafforzino il diritto umanitario internazionale, perseguendo e sanzionando rigorosamente la fame come crimine di guerra. I conflitti vanno affrontati a livello politico e intervenire sulla risoluzione dei conflitti è possibile, bisogna vedere però se c’è una volontà politica.


Spiegherebbe a chi ci leggerà, cos’è un “Sistema Alimentare”, in quanto non si tratta del solo atto di mangiare ma qualcosa di molto più complesso.

Il Sistema alimentare include tutti gli aspetti e i processi che vanno dalla produzione alla raccolta di prodotti alimentari, alla loro lavorazione fino alla commercializzazione e al consumo.  
È necessario oggi ripensare e aprire la strada a un cambiamento radicale dei nostri Sistemi alimentari che stanno creando forti disuguaglianze e conseguente inasprimento della fame. Occorre valorizzare le economie e la produzione di piccola scala così come le pratiche agricole e le colture tradizionali, che sono le più resilienti ai cambiamenti e che forniscono prodotti maggiormente nutrienti.

Secondo lei, per intervenire concretamente sul sistema alimentare, quali misure occorrerebbero?

Questo è un dibattito in corso nel sistema Nazione Unite, con il coinvolgimento della società civile internazionale, le organizzazioni e reti locali, i produttori e agricoltori.
A settembre c’è stato un Vertice delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari e ci saranno altri appuntamenti internazionali importanti che potranno e dovranno incidere su questo necessario cambiamento radicale dei sistemi alimentari, come la COP26 ovvero la Conferenza mondiale sui Cambiamenti Climatici o il Vertice di Tokyo sulla Nutrizione che si terrà a fine 2021. In queste occasioni gli Stati devono impegnarsi e intraprendere azioni, , chiare e precise di lotta alla fame, oltre che investimenti per raggiungere l’Obiettivo Fame Zero. Sono necessari impegni e azioni concrete urgenti e lungimiranti.


Abbiamo parlato di Paesi africani e asiatici, in Italia, invece, qual è la situazione?

L’Indice Globale della fame non ci dice niente di specifico sull’Italia. Di fatto, come ho già detto in apertura, il GHI analizza quei Paesi in cui l’incidenza della denutrizione e degli altri indicatori presi in esame è mediamente più alta e al di sopra di un certo valore.
L’indice di denutrizione in Italia è basso sebbene povertà e fame siano in aumento anche nel nostro Paese. In Italia abbiamo in realtà anche un altro problema di malnutrizione che condividiamo con molti dei Paesi industrializzati, ma che riguarda in parte anche Asia, Africa e America Latina, ovvero il sovrappeso e l’obesità.
In molti Paesi africani, così come in molti altre regioni del mondo in cui registriamo livelli di denutrizione grave abbiamo anche una coesistenza tra denutrizione e sovranutrizione, un doppio fardello dunque dovuto al consumo di cibo altamente calorico e poco nutriente che spesso è accessibile a basso costo. Questo avviene soprattutto e maggiormente nei contesti urbani ed è legato a forme di povertà e deprivazione.
In Italia stiamo registrando un aumento della povertà e conseguentemente della fame, ma non ai livelli di gravità presi in considerazione nell’Indice Globale della Fame. Sicuramente il Covid 19 è una causa aggiuntiva e tra le più gravi di questo secolo come abbiamo evidenziato nel GHI 2021.
Una stima e proiezione della FAO ci dice che entro il 2030 ci saranno seicentocinquanta sette milioni di persone denutrite, cioè quasi l’otto percento della popolazione mondiale, ovvero circa trenta milioni in più di uno scenario in cui non si fosse verificata la pandemia.


Parliamo di immigrazione, la fame è uno dei fattori scatenanti. In che modo la famene  aumenta il fenomeno?

La fame è causa e conseguenza delle migrazioni. Le persone si spostano perché non hanno nei propri territori la possibilità di accesso al cibo. Allo stesso tempo i fenomeni migratori possono avere come conseguenza povertà e fame.
Le migrazioni sono dovute anche agli effetti del cambiamento climatico, carestie, siccità alluvioni e noi abbiamo una grossa responsabilità. Non a caso parliamo di una grave ingiustizia climatica: coloro che meno ne sono responsabili sono quelli che ne soffrono e soffriranno di più. I Paesi industrializzati hanno infatti le maggiori responsabilità di emissioni di gas serra, tra i principali responsabili dell’innalzamento delle temperature globali e conseguente cambiamento climatico.
I fenomeni migratori, la fame, i conflitti e cambiamenti climatici, sono strettamente interconnessi e come tali vanno affrontati.
La fame è un pericolo persistente che minaccia la vita di milioni di persone, molte delle quali vivono il dramma degli sfollamenti forzati.

Voi siete sul campo, cosa vedono i vostri occhi? Secondo me, dovremmo raccontarlo più spesso.

Questa è una domanda importante e rilevante.
Chi come me, lavora dall’Italia o Paesi del Nord del mondo sulle politiche porta la voce dei più vulnerabili, delle persone in stato di necessità, attraverso un necessario cambio di prospettiva. Lo facciamo attraverso l’esperienza e il lavoro sul campo a fianco delle popolazioni in stato di necessità che vivono quotidianamente le criticità e crisi generate da decisioni e azioni intraprese da altri. Questa duplice testimonianza è molto importante.
Ciò che vediamo è una grande ingiustizia, violazione e assenza di diritti – e il cibo è uno di questi – per scelte fatte altrove, con una responsabilità precisa dei Paesi ad alto reddito.
Questa è un elemento da tenere in considerazione anche e soprattutto nella definizione di soluzioni per un futuro migliore per tutti.


C’è un messaggio  che vorrebbe lanciare?

Intervenire in maniera urgente e con azioni durature è l’unico modo per affrontare le grandi crisi del nostro secolo, le tre C, conflitti, cambiamento climatico e Covid 19 per avere un mondo libero dalla fame in cui nessuno sia lasciato indietro.  
Una pace duratura e la lotta alla fame sono delle priorità che richiedono che gli interessi dei pochi non prevalgano sui diritti di tutti.


In conclusione, unendomi all’appello di Valeria, ringrazio per il tempo concessomi.






Mara Cozzoli

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